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Grafica e comunicazione

Nel portfolio presentiamo l’immagine e le pagine pubblicitarie della collezione invernale Belvest: servizio realizzato a Villa Bolasco a pochi giorni dall’inizio dei lavori di restauro che la riporteranno all’antico splendore. Presentiamo inoltre l’immagine per l’estate 2013 di Jacketinthebox, intitolata Light & Lightness. 

 

Un link ci seppellirà

Mi è capitato di pensarci durante un piovoso fine settimana occupato a leggere la Recherche di Proust seduto al tavolo della cucina. “Di qui a breve resteranno ancora persone in grado di frequentare una lettura del genere: lenta, attenta, prolungata, agganciata a un solo testo per giorni e giorni?” - mi sono chiesto richiudendo il primo dei tre volumi alla fine del primo dei sette libri di cui è composta la monumentale opera, ‘l’oeuvre cathédrale’.

È una domanda che credo non potranno mai porsi mia figlia e mio padre, e non tanto per loro propensioni personali, quanto per motivi generazionali, e per ragioni opposte. Mio padre non ha partecipato alla rivoluzione digitale e troverà la domanda oziosa; mia figlia non l’ha nemmeno percepita, avendo iniziato l’apprendimento a rivoluzione compiuta, e troverà la domanda assurda (del resto che io mi proponga di leggere oltre tremila pagine per scelta deliberata, di qualsivoglia autore, credo che per lei sia la prova di una qual certa seminfermità mentale). 

La mia generazione è stata invece travolta dalla rivoluzione con tempismo impeccabile. Ci ha investiti proprio al passaggio dall’età scolare alla lavorativa. Abbiamo studiato sui libri con la matita in mano, scritto lettere a penna, disegnato e imparato le tecniche usando le mani, sporcandocele; e poi dovuto re-imparare da capo un metodo e un sistema, a leggere da uno schermo e a usare alcune dita, sempre pulitissime, al posto delle mani. Ma non solo, abbiamo dovuto re-imparare un modo di comunicare con gli altri, un modo di ‘essere nel mondo’ e perciò, va da sé, dovuto riadattare l’intera dinamica organizzativo-concettuale del nostro lavoro. Ma i germi educativi inculcatici nei primi vent’anni di vita, evidentemente, non sono stati intaccati più di tanto da questo cambio di visione epocale, se ancora siamo capaci di porci domande come quella iniziale. 

Perché questo in effetti è stata la rivoluzione digitale: un cambio di visione del mondo, un cambio di visione epocale. Da appassionato di storia della cultura arrivo a paragonarla al passaggio dal manoscritto al libro a stampa. Non vedo altri paragoni possibili. Essendoci calati dentro, forse la portata pare attenuata. Il vissuto sfuma i contorni come un oggetto visto da troppo vicino, impossibile da mettere a fuoco. Ma credo di non esagerare ad azzardare tale paragone. 

Provo a leggere la rivoluzione passata: ai tempi di Gutenberg in tutta Europa esistevano circa trentamila libri scritti a mano; nel giro di cinquant’anni vennero messi sul mercato più di dieci milioni di volumi stampati. Tutto questo portò a una accelerazione delle dinamiche culturali e quindi sociali, aprendo alle rivoluzioni che traghettarono in men che non si dica, dati i tempi di reazione dell’epoca, il Medio Evo alla piena modernità. Sorse così e si diffuse rapidamente la nuova scienza, e quindi le rivoluzioni politiche, la riforma protestante, oltre a nuove forme di benessere... 

Il passato lo leggiamo pertinente e la linea di continuità causa-effetto ci pare intelligibile. È l’esito della storicizzazione, che è comunque sempre una forzatura del reale (molte soluzioni causali diventano chiare solo ex post a forza di montaggi e rimontaggi di pellicola). Ma se guardassimo il nostro mondo, ovvero la nostra rivoluzione tecnologica, con gli occhi degli storici, potremmo dire che le conseguenze di questa rivoluzione sono paragonabili a quella del quindicesimo secolo? Ripeto: credo di sì, anzi, pensando a come questi cambiamenti hanno radicalmente mutato le condizioni di vita di miliardi di persone, credo che l’impatto nel contesto planetario sia di gran lunga maggiore. Nel quindicesimo secolo la rivoluzione riguardò alcune parti d’Europa per irraggiarsi lentamente, nei secoli; qui si sta parlando dell’intero universo mondo e di qualche decennio appena. E cosa sta portando questa nuova rivoluzione? Una nuova scienza diffusa, una nuova consapevolezza, rivoluzioni politiche, nuove forme di benessere o presunte tali? Certo. Ma di che natura? Impossibile rispondere, per lo stesso motivo per cui definire i contorni di una mano appoggiata alla punta del naso è impossibile, a meno d’esser Pinocchio. 

Ermanno Bencivenga ci ricorda che di fronte a rivoluzioni così dirompenti una parte d’umanità tende ad abbracciare con entusiasmo la novità, un’altra parte si ritrae impaurita a enunciare oscure e apocalittiche profezie. Non nego che per parecchio tempo ho subìto questa rivoluzione, adattandomela addosso senza alcun entusiasmo, pur senza enunciare oscure profezie. Ed è evidente che non ostante questo ‘adattamento’ le mie dinamiche d’approccio al lavoro si siano mantenute assai diverse rispetto a quelle dei più giovani colleghi, i cosiddetti nativi digitali. Questo conferma che i germi educativi degli anni d’apprendimento non si sono certo inariditi al contatto con le nuove dinamiche di lettura, e perciò di pensiero, indotte dall’uso massivo delle nuove tecnologie. 

Tramite Bencivenga sono venuto a conoscenza di Nicholas Carr e del suo “Internet ci rende stupidi?”, in cui sostiene che “la capacità di concentraci a lungo e di pensare in modo approfondito e analitico sta soccombendo all’aggressione operata dal web e in particolare dal suo elemento basilare, il link. I link ci incoraggiano a entrare e ad uscire da una serie di testi anzichè dedicare la nostra attenzione a uno di essi”. I link sono progettati per catturare l’attenzione e sono efficaci proprio per la loro capacità di ‘distrarre’, questo lo intendiamo bene per esperienza personale un po’ tutti. Ma proprio da questo dato di fatto Carr vede nella rivoluzione digitale una pericolosa deriva piuttosto che un felice approdo, generante superficialità e confusione di massa.

Ma a Carr risponde Howard Rheingold (che bel nome wagneriano!) con il suo “Perché la rete ci rende intelligenti” (perfetta la simmetria dei due titoli: modestamente dubitoso quello, tronfio e assertivo questo). In verità anche Rheingold ravvisa lo stesso rischio paventato da Carr, ma va oltre indicando le vie d’uscita per godere a pieno dei vantaggi della rete. Afferma che per aggirare l’ostacolo della distrazione occorre saper muoversi consapevolmente per usare i link a proprio beneficio senza invece esserne usati, esercitare quindi un controllo cosciente di attenzione e usare l’arma del sospetto su ciò che si trova in rete, verificando e triangolando le fonti. Illustra insomma il suo metodo pratico di sfruttamento della rete, che reputa l’unico che assicuri reali benefici, contro i rischi di chi affronta la rete senza... rete (ovvero le stesse sue cautele metodologiche).

Carr contro Rheingold, quindi. Chi si ritrae impaurito a enunciare oscure e apocalittiche profezie; e chi abbraccia con entusiasmo la novità. Identico però resta il presupposto: il potere dell’onnipresente link d’irretire la mente in una trama superficiale, ossessiva e stordente. 

Ma Bencivenga scopre, argutamente, una falla nel pensiero del secondo, colui che abbraccia la novità, Rheingold: “Non si rende conto che l’individuo cosciente e responsabile di cui parla è il prodotto di un ambiente sociale ed educativo ormai sulla via del tramonto. Cita costantemente sé stesso come modello virtuoso di uso degli strumenti informatici senza riconoscere d’essere il prodotto di un altro ambiente sociale ed educativo, che lui è arrivato a quegli strumenti dall’esterno e proprio per questo può usarli senza lasciarsene fagocitare. Il che non vale per i giovani nati nell’epoca della rete e che non hanno altra esperienza che questa: istantanea, laterale, divagatoria”.
Lettura (quindi apprendimento, quindi pensiero, quindi esperienza): istantanea, laterale, divagatoria.
L’opposto dell’atto (e dell’arte) della lettura seria, che comprende due moti della mente: l’interpretazione (l’ermeneutica) e la valutazione (la critica, il giudizio estetico) - del resto inseparabili, infatti interpretare significa giudicare (proprio l’antidoto consigliato da Rheingold).

Istantanei, laterali, divagatori. Lettori del rumore di fondo, piluccatori parossistici, peroratori dell’atrofia della memoria... Cosa ne verrà fuori, mi dico, da gente così? Bencivenga, con lucidità, senza enfasi e drammatizzazioni, si chiede se questa gente avrà ancora una coscienza cartesiana, degli obiettivi, una chiara distinzione tra pubblico e privato. 
Bencivenga non ne fa un dramma, bontà sua, ma questi sono dilemmi che non possono non scuotere le coscienze.

Torno infine alla bellezza che contrasta l’inquietudine, torno alla lettura di Proust. Faticosa, che richieda lentezza, pazienza, nessuna distrazione; pagine che parlano direttamente all’anima, capaci di produrre una lenta palingenesi emotiva. Capaci di scandagliare in profondità il fatterello più minuto come le domande decisive sul senso del tempo, sul senso del mondo. L’opera di un microscopista emotivo che cerca di penetrare le contraddizioni nostre e di chi ci circonda, le debolezze e le meschinità di ciascuno e che descrive come l’anima si sciolga di fronte a un ricordo. Uno spartito musicale, che suona lunghissimo e senza note. Una eroica scommessa contro l’oblio.

12/07/2013 Filippo Maglione