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Grafica e comunicazione

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Quando fidarsi delle apparenze

“Fidati degli aspetti cosiddetti superficiali: la copertina, la grafica, l’impaginazione, il titolo. Parlano come etichette sobrie di vini nobili. Mi è accaduto, seguendo le apparenze, di scegliere al buio e di scoprire per questa via autori, libri, editori. Sono solo i superficiali, diceva Wilde, che non si fidano della prima impressione.”

Parole di Giuseppe Pontiggia, attorno all’acquisto dei libri. Consigli che condivido con soddisfazione, avendoli messi in pratica molte volte. Così, per esempio, arrivai a scegliere ‘L’insostenibile leggerezza dell’essere’ di Kundera, allora sconosciuto al grande pubblico italiano, il giorno stesso in cui una piccola pila fu scaricata davanti alla cassa di una libreria vicina allo studio in cui lavoravo. Subii una fascinazione irresistibile, immediata, trasmessa dal titolo e dall’immagine di copertina. Lo comprai a scatola chiusa, senza nemmeno leggere i risvolti. Poteva bastarmi anche come semplice tappezzeria, pensai. Quasi lo stesso capitò con Andrea Camilleri, che scoprii molto prima della sua esplosione, per puro caso. ‘La Stagione della caccia’ (un piccolo capolavoro) lo scovai, sparuto, in mezzo a molti altri titoli Sellerio; giaceva in unica copia, del tutto anonimo, perfino un po’ stropicciato. In questo caso, oltre al titolo e all’immagine di copertina, mi intrigò pure il risvolto. Per capire quanto fosse sconosciuto all’epoca, subito dopo averlo letto tornai in libreria a caccia d’altri titoli dell’autore, e mi toccò ordinare l’unico disponibile a catalogo. 

C’è peró una pregiudiziale comune in queste storie: la fiducia quasi incondizionata nei confronti delle rispettive case editrici, Adelphi e Sellerio. Una fiducia che è riposta anche sull’aspetto grafico e ‘materiale’ dei loro libri, un aspetto apertamente connotato, inconfondibile. Libri, oggetti fisici, come veri e propri marchi di fabbrica. Un po’, per fare un paragone azzardato, come per Porsche, il cui marchio di riconoscibilità è dato dalla forma sinuosa, inconfondibile e immarcescibile, delle auto, più che dal complesso scudo quadripartito con cavallino rampante che rappresenta la marca vera e propria.

Partendo dal presupposto dettato da Pontiggia, e poi sollecitato da un bell’intervento di Giovanni Lussu apparso sul numero di luglio di Progetto Grafico, torno quindi a ripensare all’editoria e ai problemi connessi agli interventi del grafico in ambito puramente editoriale. Invero è da tempo che ci penso, e sempre con apprensione, perché vedere lo zampino del grafico graffiare le vetrine e gli espositori delle librerie genera in me sempre disagio, a volte malessere, altre volte perfino disgusto. Le copertine sbagliate abbondano. Mi fermo ad analizzare le opere narrative, quelle investite in maniera maggiore dal problema. Osservatele: si va dal primo piano di un volto (preferibilmente di una bella ragazza) ripetuto ossessivamente, nel tentativo inesausto, credo, di perpetuare nei secoli l’incomprensibile successo della ‘Solitudine dei numeri primi’, fino al guazzabuglio informe di grafica e foto sovrapposti malamente (e verniciature e plastificazioni, e oro a caldo e stampe a secco...) a tentar d’istruirci coi fuochi d’artificio in merito a una trama da rappresentare concettualmente a colpo d’occhio in maniera esaustiva, per così dire. Si va quindi dal vuoto pneumatico d’idee, a cui non resta che riproporre il trito, a un’esubero scomposto d’idee mal congegnate. Ciò che crea in me il disagio, sempre, è vedere distintamente la mano di un grafico. E questo disagio monta anche quando la copertina pare svolta a regola d’arte. Vale a dire: quando sarebbe da considerarsi a regola d’arte... se solo non si trattasse di una copertina di un libro. Perché questa apparente contraddizione? Perché una copertina ben congegnata da un bravo grafico praticamente non funziona mai ai miei occhi?

Potrei facilmente rispondere grazie a un altro paio di domande. Queste. Perché le più belle copertine, quelle di cui tutti noi conserviamo memoria e che ci comunicano un messaggio immediatamente autorevole e sincronico rispetto allo status delle rispettive case editrici, non sono state svolte da grafici professionisti? Perché le idee delle copertine Adelphi e Sellerio, per esempio, sono state partorite e svolte all’interno delle case editrici, e non da grafici di professione?
Implicitamente queste domande svelano l’arcano, che però vorrei approfondire.

Come dice con arguzia Lussu, le copertine dei libri sono diventate “normale packaging, come per i detersivi o i surgelati. La mercificazione spinta del libro, inoltre, implica lo strapotere dei marketing men (e women) delle reti distributive, i cui limiti e pregiudizi determinano inappellabilmente ogni scelta. Ma una terza osservazione è quella cruciale: se il potenziale lettore non è analfabeta (il che sarebbe un bel paradosso), basterebbero, ben visibili, nome dell’autore, titolo ed editore, e in quarta o sulle bandelle le informazioni essenziali. Gran parte delle copertine, anche belle copertine con bellissime illustrazioni, ha poco a che fare con quello che c’è scritto dentro, perché chi le produce raramente ha modo di leggerlo. E anche se lo leggesse (e lo capisse), ci si può chiedere perché sovrapporre un’altra interpretazione a quella del lettore, che rischia di esserne indebitamente fuorviato.”

Approvo le parole di Lussu, con solo un appunto nei confronti dell’ultima annotazione, che fa intendere che qualsiasi “interpretazione” di copertina possa risultare fuorviante. Invece alcune copertine pensate dagli editori (chiaramente non comuni, chiaramente illuminati) funzionano a meraviglia e anzi offrono una sorta di apertura d’orizzonte visivo, oltre che un appiglio archetipico, chiave di lettura ulteriore per penetrare nel mistero sottile di un testo, o addirittura di un autore. Penso, tanto per citare una serie esemplare, alle copertine dei volumi dell’autobiografia di un autore amatissimo, Thomas Bernhard, illustrate magistralmente dai quadri di Leon Spilliaert, variazioni d’intrico di tronchi e rami secchi che sono il sigillo iconico non solo alla scrittura di Bernhard, un infinito, ripetitivo e armoniosissimo intrico di frasi, ma proprio alla sua stessa vita, scandita sin dalla giovinezza da una, infine letale, malattia ai polmoni (l’intrico dei rami secchi così simile all’intrico dei bronchi). 

L’editore che ama visceralmente i libri, e non solo come fonte di guadagno ma proprio come la forma più alta dell’espressione umana, possiede forme interpretative sconosciute al grafico, date principalmente dal rispetto sacrale per l’oggetto in questione. Per lui il libro non potrà mai essere solo una “merce”, ma una rappresentazione simbolica, pur concreta, di un bene dagli alti contenuti morali. 

Sentire al proposito Roberto Calasso spiegare il senso della scelta dell’immagine di copertina di un libro della casa editrice da lui fondata, credo sia esemplare per capire quali ambiti di pensiero siano posti in gioco, a un certo livello: “Che cosa doveva essere quell’immagine sulla copertina? Il rovescio dell’ ecfrasi - proverei a definirla oggi. Naturalmente non ci siamo mai detti nulla di simile, ma agivamo come se fosse sottinteso. Ecfrasi era il termine che si usava, nella Grecia antica, per indicare quel procedimento retorico che consiste nel tradurre in parole le opere d’arte. Ora, l’editore che sceglie una copertina - lo sappia o no - è l’ultimo, il più umile e oscuro discendente nella stirpe di coloro che praticano l’arte dell’ecfrasi, ma applicata questa volta a rovescio, quindi tentando di trovare l’equivalente o l’analogon di un testo in una singola immagine. Perciò, per più di trent’anni, Foà e io abbiamo vagliato, provando e riprovando, centinaia e centinaia di immagini, formati, colori di fondo.” 

Quasi mi commuove l’immagine di un Calasso e di un Foà calati a svolgere un lavoro a me così familiare; è una immagine che ammanta di nobiltà nuova il mio mestiere, invece di vederla come un ridimensionamento del nostro ruolo professionale (ché a esser chiari il loro lavoro da dilettanti sbaraglia quello di centinaia di professionisti, anche molto quotati, gettando un’ombra, è inutile nasconderlo, sulla nostra categoria). E per inciso, e per continuare a farsi del male: di Adelphi va ricordata la scelta della composizione in Baskerville, anche questa non dovuta ad alcun graphic designer, che ne ha fatto la casa editrice italiana di gran lunga più leggibile.

Insomma, il rapporto tra il grafico professionista e l’oggetto libro pare minato proprio da una mancanza di cultura specifica del soggetto nei confronti dell’oggetto; oggetto che reclama non solo conoscenza e applicazione ma devozione, passione assoluta, amore. Pretendere tutto questo da un grafico è in effetti improprio. Egli applica al libro la sua cultura, educazione e conoscenza, allo stesso modo di quando si trova ad applicarla su ogni altro tipo di oggetto, non arrivando a comprendere come questo ancora non basti. 

Infine ammetto d’essere riuscito, in carriera, a produrre qualcosa che si avvicina al mio modello perfetto di libro. Un libro autoprodotto, ovviamente, di piccolo formato, praticamente senza copertina e con legatura primordiale e rudimentale, assai precaria, col filo a vista: l’essenza stessa del libro come oggetto anti-commerciale, l’opposto di un prodotto di vendita, di un detersivo, di un surgelato. Solo  Bodoni nero impresso su carta materica bianca. L’aspetto esteriore, così congegnato, tende a descrivere l’esile e precario contenuto, con profonda umiltà (forse solo apparente?). Il significante che quasi scompare al cospetto del significato, pur esso peregrino. A Lussu credo piacerebbe.

 

08/11/2012 Filippo Maglione