Questo sito utilizza cookies, anche di terze parti, per offrire una migliore esperienza. Chiudendo questo banner o continuando la navigazione acconsenti all’uso dei cookie. Per saperne di più leggi la nostra Privacy Policy.
Hai accettato l'utilizzo dei cookies da parte di questo sito

Grafica e comunicazione

L'identità di Eulero*

Serata decisiva. Sublime e terribile. La bellezza mi si è dispiegata innanzi. Bellezza che ha portato a chiedermi, mentre la stavo desiderando, cosa stessi davvero desiderando. Come varcare una soglia pericolosa, che sarebbe meglio lasciare inviolata.

Ero alla fila 1 posto 1 della platea cosiddetta Vip, insomma, le ero davanti. Fasciata in due abitini sexy, gialloverdefluo con palpabili trasparenze nel primo tempo (Schubert e Chopin), addirittura nerazzurro e spaccatissimo nel secondo (Skrjabin e Balakirev). Oltre a lei e allo Steinway, ho avuto le sue gambe davanti al naso per tutto il secondo tempo. Questo il layout.

A questo punto non può essere omesso un particolare. Lei è ideale già per come si presenta, al netto di ciò che riesce a produrre col suo strumento. Desiderabile, in senso fisico e non solo, dove dentro al “non solo” c’entra il suo atteggiamento, l’espressività, la movenza, la grazia impacciata del gesto d'entrata, ma c’entra anche, e di prepotenza, una bella botta di mito. Ci vedo dentro l’enigma, il grande mistero, passato al setaccio di due occhi più belli.

Però questo, il suo corpo e le sue movenze, e le paranoie che ci costruisco sopra, pur non marginali sono solo il 10% della faccenda, la ciliegina sulla torta. Il restante 90 riguarda il mistero musicale: lei non fa suonare il pianoforte, lei “è” il pianoforte. Spesso si è usata questa immagine parlando dei più grandi virtuosi, che non suonano bensì “sono” essi stessi strumento. Ma un conto è dirlo questo sproposito, un conto è trovarselo davanti, a Roma, in una sera di febbraio. Io c’ero, io l’ho visto, questo sproposito, l’ho sentito e ho le prove: so che esiste, che è vero. Vedere i suoi video e ascoltare i suoi dischi è una panzana, una bugia spacciata per vera. Solo dal vero, e da così vicino, se ne può comprendere l’enormità.

L’ho sentita respirare, a volte. Mi ha meravigliato sentirla respirare. L’ho sentita abbandonarsi a un flebile canto, l’ho vista battere con la boccuccia le note, accompagnare le più lievi con sguardo puerile, l’ho vista contrarsi e liberarsi, l’ho vista tendere muscoli e tendini, nello sconvolgimento pazzo, epilettico quasi e pur sempre controllatissimo dei passaggi più impervi, tirati all’estremo delle possibilità. Le sue, disumane. Ho sentito non sporcare una nota, quella sporcatura che ho inconsciamente invocato per tutto il tempo, per poterla pensare un po’ meno distante da me.

Con Chopin ho riso e pianto. Mai sentito uno Chopin così. Anzitutto: nitido. Uno Chopin cartesiano ma pieno di grazia e di forza, che è una idiozia che non regge, detta così. Anche i santoni, e i tetragoni e gli ampollosi, i Benedetti Michelangeli e i Rubinstein, potrebbero solo baciar quelle manine e i piedini e rimorire d’invidia. Rispetto ai video e ai CD ho sentito una finezza d’interpretazione, una passione, un’eleganza nel tocco nemmeno paragonabili, e posso dirlo con un certo margine di credibilità solo perché questi dettagli ho avuto l’accortezza di valutarli a occhi chiusi, cercando di scacciare così la sua presenza, il suo carisma fatto di carne, avorio, ebano, legno e metallo. Ovviamente l’ho desiderata. Ma cosa ho desiderato di lei? So perfettamente che una parte del suo corpo, fatto di carne, per me il più perfetto pur nelle sue meravigliose imperfezioni, tra un po’ deperirà - e comunque se anche per assurdo lo possedessi, quel corpo, mi andrebbe in breve a noia, come tutto ciò che si possiede, o si crede di possedere. Ho così capito che ho desiderato solo che quel corpo in quel momento (e ora intendo proprio tutto il corpo, comprensivo quindi anche d’avorio, ebano, ecc.) insieme alla musica sublime che stava producendo... non finisse. Ho desiderato la sospensione del tempo. Ho desiderato che quell’attimo durasse per sempre. Per farla breve: pensando “In fondo che mi resta da provare dopo questo?”, ho desiderato di morire. Non per modo di dire. Perché non ho trovato altra risoluzione al mio desiderio che eternare quell’istante nell’unico modo possibile a noi umani: rientrando nel nulla.

Fatto sta che, invece, quel tempo è finito, e poi è finito anche il tempo degli applausi, dei bis, degli altri applausi. Quindi ho avuto l’idea di fuggire. Alla fine dell’ultimo bis indiavolato sono corso giù dalle scale in cerca del cappotto e del cappello e poi di un taxi. “Via, via!” mi sono detto, “via, dalla parte opposta!”.

Ma non ho resistito. La sapevo al bookshop, o in procinto d’andarci, per firmare autografi, e non potevo fare il pellegrino con lei, con la bellezza, non potevo mettermi in fila per elemosinare una firma e una foto. Anche per questo la fuggivo. Ma non ho resistito. Appena passata la sbarra che separa il Parco dal resto del mondo sono schizzato fuori dal taxi, correndo in senso contrario a una piccola folla. Lei stava giusto entrando al bookshop, lentamente, presidiata ai lati da due sovrastanti guardie del corpo. Nessuno l’aveva riconosciuta, così fragile, piccolina, nonostante fossero tutti lì solo per lei, e nonostante quello spiegamento di forze in sua protezione. È stato un attimo. Ho pensato che avevo una sola possibilità: avvicinarmi e, più o meno come fece d’Annunzio con Ida Rubinstein quella sera a Parigi, inginocchiarmi, baciarle il piedino, e poi salire a baciar la manina (non l’inguine, ovviamente) e infine andarmene, ringraziando. Ma in una frazione di secondo, ahimè, ho pensato che no, non sono d’Annunzio, no no, e così l’ho vista passarmi innanzi e svanire. Lei fischiettava, beata.

Lui, il tassista - romano falso trucido, in realtà un bonaccione, sessantenne, grosso, tatuato - ha voluto sapere della mia fuga. Avevo bisogno proprio di questo, sfogarmi. Gli ho detto tutto, tutto, tutto, anche della disperazione per la bellezza impossibile da trattenere, della nostra disperazione di uomini condannati al fuoco della bellezza che si accende e che si spegne producendo e distruggendo mondi, cose e illusioni, nel breve intervallo di tempo, il nostro divenire, tra il nulla che eravamo e il nulla che saremo. Lui, guidando e marcando le parti ritenute salienti con alcuni “apperò!”, “ammazza!” e “davero?”, alla fine s’è mezzo voltato per dirmi, compassionevole e serio serio: “Ma na soluzzione ce sarebbe: se po’ sempre pensà che je puzzano i piedi”.

19/02/2015 Filippo Maglione

* “Signori, posso dirlo con certezza nonostante
sia assolutamente paradossale e non possiamo
capirla e non sappiamo che cosa significhi.
Ma l’abbiamo dimostrata, e quindi sappiamo
che deve essere la verità”.
Benjamin Peirce dopo aver dimostrato l’identità di Eulero.