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Grafica e comunicazione

Homo faber fortunae suae


E così è ormai imminente “La fine dell’homo faber, tra video, audio e selfie”, come recita il titolo dell’articolo sul domenicale del Sole 24 Ore a firma Sebastiano Maffettone, a commento di “Documanità, filosofia del mondo nuovo”, ultima, e sin qui definitiva, opera di Maurizio Ferraris - uno dei più influenti e senz’altro il più originale dei filosofi contemporanei - che aggiorna le categorie del filosofare e apre scenari inauditi, per lo meno rispetto al nostro sguardo sul mondo. Un libro capace di fare a pezzi molti nostri cari pregiudizi coltivati con protervia in decenni di onorata carriera riguardo un argomento sempre più decisivo per la vita delle persone, oltre che per il nostro lavoro: il world wide web. Stracciare pregiudizi amorevolmente nutriti da una vita in pochi giorni, può essere esercizio doloroso - e non solo perché vivere di certezze inscalfibili è una benedizione - ma anche bellissimo.

Abbiamo apprezzato quasi ogni frase del corposo libro - oltre 400 pagine belle fitte, comprese le succose note al testo. Frasi brillanti che vanno dritte al sodo e che si fanno leggere in scioltezza, spesso con stupore e divertimento, raccordate tra loro da riferimenti logici stringenti e consequenziali, nonostante l’enorme messe di riferimenti trasversali, e interdisciplinari, che le compongono. D’altronde lo stesso autore subito dopo il Prologo, nell’indicare le provvidenziali Istruzioni per l’uso, ci avverte che l’opera vuole riproporre la forma del sistema, caduta in disuso negli ultimi due secoli a favore del frammento («Se, come io credo, dalla filosofia ci si attende la totalità, o almeno qualcosa che le assomigli, allora la sola alternativa alla totalità negativa del frammento è il sistema, o almeno l’adozione di una forma, aperta e modulare quanto si vuole, ma una forma»). Un sistema davvero grandioso che tratta l’argomento sotto tutti i punti di vista: ontologico, tecnologico, epistemologico, e, verrebbe da dire addirittura, teleologico, e in cui i vari saperi si intersecano a formare una fitta rete, sviluppando un componimento che diremmo quasi multimediale e che risulta convincente anche nei punti più delicati, o discutibili, proprio per questa profondità programmatica così ben disegnata (anche concretamente, ogni capitolo essendo aperto da uno schemino autografo). 

Tra le varie modalità di lettura suggerite dall’autore abbiamo scelto la tematica, temendo di non essere più in grado di seguire lo sviluppo di un complesso sistema filosofico di filato, dalla prima parola all’ultima. Così all’inizio abbiamo selezionato, da un indice calibrato a regola d’arte, i capitoli relativi al sapere tecnologico, con l’idea, poi, di metterli in relazione al sapere teleologico. Ma, grazie alla qualità di scrittura, e alla conseguente e insperata fluidità di lettura, abbiamo innescato la tipica procedura d’ingordo godimento, del tutto simile a quella che si attiva davanti al dolce preferito, che inizia con il taglio timoroso di una ben calibrata fetta sbocconcellata con cura, per finire, dopo innumerevoli altri tagli, con la fetta superstite, trangugiata con piena soddisfazione ma anche senso di colpa. Insomma, sebbene in maniera ondivaga, il libro è stato letto tutto d’un fiato, trasmettendo una strana sensazione di leggerezza e gravità (nel senso del duro a sopportarsi). Quel sentirsi, frase dopo frase, pagina dopo pagina, capitolo dopo capitolo, esaltati e avviliti, intelligenti e imbecilli. Esaltati e intelligenti nell’apprendere una grande lezione, avviliti e imbecilli nel comprendere quanto l’ignoranza possa rendere schiavi dei pregiudizi, scatenando «l’atteggiamento superstizioso e farisaico che consiste nell’addossare tutte le nostre infelicità a un fantomatico neoliberismo e a una dispotica tecnica» - per dirla con il filosofo, che pare riferirsi esattamente a noi come se ci conoscesse da sempre.

In estrema sintesi, “Documanità” è il percorso di costruzione di un’antropologia che prende idealmente l’abbrivio dal Leopardi del “Canto notturno”, ossia dalla constatazione che «l’umano è il solo animale insofferente e dunque sofferente rispetto a ogni ambiente, in quanto animale instabile, inadatto e insoddisfatto, perciò povero di mondo e bisognoso di tecnologia». Sbarazzandosi in questo modo di quella che chiama “sindrome di Rousseau”, ossia di una «natura umana data per sempre e deformata dalla storia, a cui si deve ritornare». Questo approccio progressivo permette di inquadrare la tecnologia in chiave pienamente umanistica, contro pregiudizi e nefaste profezie, finendo per proporre una forma di gestione sostenibile della potenza tecnologica nel senso della giustizia umana, e del benessere.

Un punto chiave di questo percorso è il passaggio dall’uomo che produce (nel mondo di ieri) all’uomo liberato dalla necessità della produzione (nel mondo di domani), e perciò in grado di esprimere molto meglio di prima la propria potenzialità, basando l’esperienza esistenziale su tre capisaldi: il consumo, reinquadrato in un contesto affatto nuovo, e riqualificato; l’educazione, più centrata e umanistica, «fuori dalla portata di qualsiasi computer»; l’invenzione, ossia la creatività, la capacità autopoietica.

La mappatura concettuale del mondo nuovo è convincente fin nelle minuzie (nel senso dei piccoli particolari in cui si rivela la cura amorosa dell’artefice). E Ferraris ne spiattella davvero tante, di minuzie, a volte con veemenza, altre con nonchalance, spesso con esibito, ma non meno efficace, senso del paradosso - per esempio quando descrive la connessione tra consumismo e comunismo (l’Internazionale dei consumatori invece dell’Internazionale dei lavoratori...), o quando mette a confronto la Sagrada Familia di Gaudì e un termitaio, o quando pone in relazione, con equlibrismo vertiginoso, archeologia e teleologia. Gli esempi in questo senso sarebbero innumerevoli, ma crediamo sia necessario segnalare con precisione l’acme, che coincide con il paragrafo intitolato “Il paradosso del finalismo”, indicandone pure la pagina, 244.

È una mappatura credibile, quella di Ferraris, anche quando alcune prospettive e possibili soluzioni che propone per lo sviluppo armonico del mondo di domani ci sembrano parte di una descrizione distopica, al contrario di come vengono presentate. Evidentemente i nostri gusti non sempre coincidono con i suoi. Ma c’è poco da fare gli schizzinosi, poiché praticamente tutti i passaggi e le intuizioni e le critiche e le trovate e i neologismi sono geniali. E se c’è un punto, un punto solo, in cui ci sembra di aver notato una falla è quando, a conclusione di un argomentare coerente e sistematico, infine approda a una risoluzione pratica che allo stato attuale ci parrebbe impossibile, e che prospettiamo letteralmente impensabile in futuro (discetteremo al proposito nel finale di questa lunga Istantanea).

Ora però ci permettiamo di riportare le vive parole dell’autore a commento del suo libro, tratte da una recente intervista apparsa sul sito Pearson, e che a noi sono parse discretamente esaustive, pur con tutte le limitazioni del caso, nel definire la traccia più “tangibile” del libro (che ci porta dritti al punto che porremo in questione). Ricopiamo nel preciso ordine, comprese le evidenziazioni, espungendo solo alcuni passaggi di puntualizzazione e raccordo ritenuti non indispensabili.


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«La più grande trasformazione del presente rispetto al passato deriva da una circostanza in apparenza minuscola: registrare non è mai costato così poco e non è mai stato così ubiquo. Come risultato, non abbiamo avuto mai così tanti documenti, relativi non solo alle nostre azioni deliberate e linguistiche, ma a ogni nostra forma di interazione con il web, ossia i famosi metadati, e questo ha cambiato tutto».

«Tutto ciò che è registrato acquisisce una rilevanza sociale ed è esattamente ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi negli ultimi dieci anni. Se ne avevano già avuti degli accenni nel momento in cui la macchina per parlare per eccellenza, ossia il telefono, si è trasformata in una macchina per scrivere, ossia il telefonino, una macchina per registrare, per archiviare, per trasformare in documento ogni istante della nostra vita».
 
«Diventiamo quello che siamo sempre stati cioè degli uomini documentali. Questo era all’orizzonte da sempre, dal primo nostro antenato che, abbandonando la condizione puramente animale, si dedicò a una attività tecnica, quella dello scheggiare una selce per trarne un raschietto. Questo gesto antichissimo ha segnato il passaggio dall’animale non umano all’animale umano, e al tempo stesso ha segnato il passaggio dall’assenza di documenti al primo documento della storia. Perché l’attrezzo costruito attraverso l’attività umana era, al di là della sua funzione, la registrazione di un atto, degli atti che erano stati necessari per fabbricarlo, ossia del lavoro vivo che si conservava all’interno del lavoro morto».

«Quel gesto diede avvio all’epopea, prima che dell’Homo sapiens – mi auguro che quell’epopea, per altro punteggiata di enormi momenti di imbecillità, non sia ancora finita –, dell’Homo faber, ossia dell’uomo che produce. È stato così per millenni, prima nel caso in cui l’uomo produceva degli attrezzi, e principalmente delle armi per cacciare; poi quando questi attrezzi si sono trasformati in strumenti per la coltivazione, dando avvio a un processo che sarebbe culminato nell’età industriale. Ma in tutti questi momenti, l’umano era semplicemente la protesi dell’automa, giacché un uomo che usa un giavellotto, un uomo che usa un aratro o un uomo che lavora in una catena di montaggio è sostanzialmente l’appendice della macchina a cui è collegato».

«Ora è successo qualcosa di cui non abbiamo ancora preso le misure, ma che ha cambiato tutto. L’automazione ha fatto sì che noi umani non siamo più l’appendice della produzione delle macchine, ma siamo semplicemente il loro destinatario. L’uomo produttore si è trasformato nell’uomo consumatore».

«Una concezione sbagliata e moralistica vede in tutto questo una situazione catastrofica. Io credo invece che l’umano non sia mai stato così umano come adesso, giacché quando non è più costretto a presentarsi come l’appendice delle macchine, può agire in maniera propriamente umana, manifestando i propri desideri, le proprie forme di vita giuste o sbagliate che siano, le proprie inevitabili follie e i propri meriti».

«Nel momento in cui non abbiamo più bisogno di essere le protesi delle macchine, si creano due condizioni: da una parte, ci si domanda che cosa si può fare di noi, di noi che ora abbiamo perso quel senso della vita che derivava dal fatto di eseguire un lavoro. Bene, occorre comprendere che noi, tutta l’umanità – bambini, anziani, disoccupati, altrimenti occupati – produciamo valore sopra il web perché per la prima volta nella storia del mondo il consumo viene sistematicamente registrato e quindi trasformato in valore attraverso un processo di capitalizzazione».

«Per la prima volta nella storia del mondo il semplice vivere è produzione di valore. Si tratta di riconoscere questa circostanza e di tassare le piattaforme che accumulano un plusvalore enorme di cui noi non siamo consapevoli, così come non siamo consapevoli del fatto di lavorare in ogni momento della nostra vita. Preoccupiamoci di questo, prima di tutto, prima della privacy, prima delle fake news: le piattaforme non esercitano uno scambio equo con l’utente. L’utente riceve gratis delle informazioni, la piattaforma riceve gratis molte più informazioni; diversamente dall’utente, ne diventa proprietaria, cioè crea una forma di accumulo primario; queste informazioni potranno essere successivamente capitalizzate adibendole a scopi di automazione; e, soprattutto, queste registrazioni, i big data, diventano dei beni come qualunque altro bene, e possono essere comprate e vendute».

«Questo genera l’enorme capitale documentale della nostra epoca, che trae la propria origine dalla attività che gli umani svolgono sul web, e che va ridistribuito in forma di welfare o meglio di webfare. È insomma necessario che le piattaforme vengano tassate e che a questo punto i proventi della tassazione vengano restituiti a tutti coloro che stanno perdendo lavoro o che devono essere riqualificati nel quadro della trasformazione industriale in corso».

«Molti vedono in questa trasformazione una catastrofe, evidentemente perché non pensano che la natura umana abbia un senso al di là dell’essere una protesi delle macchine; trascurano la circostanza per cui, in ultima analisi, ciò che può essere fatto da una macchina è indegno di un umano, essendo noioso, faticoso, ripetitivo – che si tratti di spaccare pietre, di lavorare in una catena di montaggio, o di lavorare come dattilografo».

«Bisogna cambiare sguardo. I senatori romani sapevano benissimo come occupare il loro tempo. Erano stati educati in modo eccellente, e disponevano di schiavi che lavoravano per loro. Oggi l’intera umanità dispone di schiavi, l’automazione è proprio questo. Invece che dichiararci, per puro vittimismo e per scarico di coscienza, schiavi della tecnica, dobbiamo riconoscerci come padroni della tecnica, che non avrebbe alcun senso in assenza di umani».

«Può darsi che tutto quello che ho detto sia sbagliato, può darsi che tutto quello che ho detto sia circonfuso da un ottimismo fuori luogo. Spero proprio che non sia così, e anzi nutro la ragionevole speranza che non lo sia. Ma poiché ogni prospezione verso il futuro comporta un rischio, sono dispostissimo, seppure a malincuore, a correrlo».


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Il senso può dirsi abbastanza compiuto, pur nei sommi capi, mancando del tutto l’enorme mole teorico-concettuale a supporto di questo percorso, oltre, naturalmente, tutta la bellezza scintillante e caleidoscopica del testo lungo il suo dipanarsi. (Precisiamo inoltre che qui ci è impossibile, per limiti di spazio, riportare i passaggi capaci di smentire l’incoerenza di una frase quale: «Nel momento in cui non abbiamo più bisogno di essere le protesi delle macchine...»).

Ora passiamo a considerare il webfare, fantastico comunismo digitale in cui il plusvalore documentale prodotto dagli utenti del web verrebbe redistribuito secondo necessità partendo dal basso, uno spettro che si aggira per tutta la durata di lettura, sin dal Prologo, ma che prende corpo e sostanza solo alla fine, in una sorta di happy ending che l’autore stesso si sforza di smorzare come può fiutando il rischio di sembrare sin troppo implicato ne “le magnifiche sorti e progressive”. Chiudiamo quindi con una serie di domande lasciate di proposito cadere nel vuoto.

Cercare di andare “oltre il lavoro” sarà sempre più necessario, questo è pacifico, ma affidando la sussistenza a leggi che impongono alle piattaforme una specie di welfare, non si rischierà di vedere uomini e donne con più tempo libero ma ancor più dipendenti (nel senso più ampio del termine) di prima? Non somiglia un po’ troppo a una mancia o, peggio, a un reddito di cittadinanza? - un dubbio che ha assalito anche l’autore, sciolto più che altro indicando la differenza tra gli elargitori (le piattaforme invece degli Stati), senza smentire del tutto la nefasta affinità ideale dei due tipi di riconoscimento economico. Con l’entità dell’emolumento in funzione del bisogno, non si innesca una triste gara al ribasso? Ma tornando a monte pare esserci un problema ancora più serio: chi sarà in grado di contrattare con i detentori delle piattaforme? Lo stesso giorno in cui iniziavamo la lettura di “Documanità” abbiamo intravisto sul Sole 24 Ore la notizia che a Wall Street i cinque pesi massimi del Big Tech (Facebook, Amazon, Microsoft, Apple, Google) sono arrivati a capitalizzare qualcosa come 10.000 miliardi di dollari, quanto il PIL di Germania e Giappone messi assieme - capitalizzazione che continuerà a crescere in maniera cospicua di anno in anno, a differenza del PIL degli Stati nazionali. Non è esagerata la fiducia riposta dall’autore in un organismo deficitario come l’Unione Europea quale artefice di questo New Deal? Quanto è credibile una Unione Europea che impone una negoziazione tra capitale e lavoro a potenze di questa portata? Del resto Ferraris stesso esclude che tale azione possa essere intrapresa dagli Stati Uniti, per una sorta di conflitto d’interesse nazionale, e dalla Cina, per evidenti questioni politiche. E intendiamo “deficitaria” l’Unione Europea esattamente per il suo conclamato deficit di sovranità (anche di diritto costituzionale) che ne limita credibilità, autorevolezza, e quindi azione. L’alternativa proposta in caso di mancato accordo con i potentati, ossia la nazionalizzazione delle piattaforme, non somiglia un po’ troppo a uno sbrigativo colpo di spugna autoritario impossibile da realizzare in Stati pur anche solo nominalmente democratici? E allora, con chi si troveranno a negoziare questi mostruosi colossi del Big Tech senza più credibili interlocutori, senza più tra i piedi gli Stati con le loro noiose Costituzioni a tutela della popolazione? Direttamente con il sistema bancario che erogherà le risibili quote definite in maniera volontaria? Un welfare che si regge su uno Stato democratico deve fare i conti direttamente con i beneficiari (tramite il suffragio universale - un tempo anche tramite i sindacati). Un webfare universale con chi dovrà, infine, fare i conti, e tramite chi o cosa? 

23/09/2021 Filippo Maglione