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Grafica e comunicazione

Quel che il mondo si merita

Mi chiedo spesso cosa non dovrebbe assolutamente mancare nel bagaglio di un giovane (e meno giovane) grafico pubblicitario con prospettive da creativo e art director. Me lo chiedo perché credo sia proprio quello che manca, piú o meno clamorosamente, a tutti i giovani (e meno giovani) grafici pubblicitari (con velleità da creativo e art director). Manca una solida base culturale e una relativa, inesausta, curiosità nei confronti delle tematiche e dei problemi che la cultura occidentale da secoli solleva (e che per sua stessa natura spesso non risolve - e forse per questo ai piú appaiono problemi inutili o addirittura dannosi). Parlo di cultura, ovvero arte, letteratura, scienza, poesia, musica, filosofia... Parlo di un sapere diffuso e non specialistico. Di un sapere dal sapore antico. Che permetta un approccio dialettico, aperto verso temi altrimenti insondabili o da liquidare alla svelta; un sapere utile a inquadrare questioni all’apparenza scontate da angolazioni inconsuete, trasversali. E foriere di soluzioni non banali, che è poi quel che si chiede principalmente a chi esercita questa professione. Interessi, conoscenze e materie che aprano quindi la visuale invece di richiuderla, che allenino a cercare un senso e a porre domande piú che a pretendere risposte prefabbricate, che introducano alla dialettica (lo ribadisco perché centrale) che è l’arte del dialogo tra i diversi, della tolleranza e della ricerca dell’armonia nella dissonanza. 

Lo dico forte e chiaro per non essere frainteso: le scuole
che sfornano grafici pubblicitari sono al limite del ridicolo,
e sarebbero da rifondare
. Parlo di quelle scuole che conosco in virtù di ció che vedo e che sento tramite gli ex allievi che inviano curriculum e si presentano ai colloqui di lavoro. Sono scuole pensate per preparare tecnici piú simili a mediocri passacarte ma ricchi di immotivate, anzi assurde, velleità creative e artistiche. Il tipo di preparazione che puó funzionare, al limite, per una specifica qualifica del nostro settore: grafico esecutivista. Ma purtroppo le basi impartite sono le medesime, sia per chi mira a essere esecutivista sia per colui che poi ambirà a diventare creativo e art director. Una aberrazione. Come se la preparazione scolare del dirigente d’azienda dovesse essere la stessa del tornitore, o quella dello stilista di moda la stessa del commesso del negozio che vende le sue creazioni. Poi è ovvio che esistano casi eccezionali in cui, in virtù di doti e volontà straordinarie, un commesso riesce a diventare un grande stilista, o un tornitore a scalare l’organigramma aziendale; ma restano appunto eccezioni, casi straordinari. E un corso di studi serio non lo si imposta certo sui casi eccezionali.

Dice: facile criticare, facile distruggere e insultare, in fondo quei programmi di studio sono stati impostati da gente competente che ha fatto il possibile per contemperare esigenze di tipo diverso. Non discuto sulla buonafede, ma mi permetto invece di discutere la superficialità e la dabbenaggine di chi continua a considerare il nostro un lavoro di serie B, fatto di tecnici dall’ambito di gestione intellettuale assai limitato. Tutto questo va contrastato con forza e pure con una certa violenza (verbale) semplicemente perché la realtà è l’esatto contrario. L’aspetto tecnico conta relativamente poco ed è facilissimo da acquisire in breve tempo. La gestione intellettuale del nostro mestiere è invece tra le piú complesse e ardite che si possano immaginare perché, come ho già detto molte volte, la nostra peculiarità principale è quella di dover costantemente raccordare problemi di natura diversa per dar loro una forma concreta, dinamica e razionale, che si tramuti in messaggio fruibile da tutti, dal colto e dall’inclita. Un lavoro intellettuale difficile e sopraffino, che tiene conto di sofisticati aspetti concettuali, verbali, iconici, mnemonici, simbolici... Aspetti da riunire e rendere coerenti. Per questo serve una certa innata elasticità mentale ma soprattutto una base culturale a tutta prova che riesca a innervare, vivificare e corroborare tale elasticità. Un percorso di studi serio dovrebbe ruotare anzitutto attorno alla filosofia, alla storia della filosofia e a tutti gli aspetti che l’hanno legata in questi secoli alla scienza. Dovrebbe naturalmente rivolgersi all’estetica, come caposaldo primo e irrinunciabile. E poi alla sociologia, alla semiotica. Alla storia delle idee, storia del design. Un approccio alle neuroscienze cognitive. E poi l’arte, tutta. Con particolare attenzione a quella contemporanea. Dovrebbe trattare diffusamente di tipografia, di cinema e musica, poesia, tanta tanta poesia. E infine, ma solo infine, concentrarsi anche sugli aspetti tecnici legati alla produzione grafico-pubblicitaria e alla comunicazione di massa e al marketing, oltre alle nuove tecnologie. Queste ultime materie dovrebbero occupare uno spazio finale e limitato, anche perché forti delle basi culturali immesse precedentemente sarebbero di facilissima assimilazione e sintesi.

Per non inoltrarsi oltre nel campo delle ipotesi futuribili ma restando al possibile, qui e ora, in Italia: a un giovane che vorrebbe svolgere un giorno la mia professione non mi resterebbe che consigliare il miglior Liceo Classico su piazza; poi un corso di studi da autodidatta che cerchi di compensare i vuoti, impostato quindi sulle materie e tematiche non presenti nel programma didattico del Liceo. Da autodidatta solo se non si vuole (o non si puó) perdere del tempo. Altrimenti, per amor del pezzo di carta e disponendo di tempo e denari, puó iscriversi a una facoltà universitaria legata alla comunicazione, pur tutte malissimo congegnate, dispersive. E infine si iscriva pure a un solido corso di grafica pubblicitaria che abbia al suo centro materie come computer grafica e tipografia. Una sorta di slalom piuttosto avventuroso, ma giustamente piramidale, a formar basi solidissime, anzitutto. Decisivo, ad ogni buon conto, è l’evitare come la peste qualsiasi scuola di grafica, d’arte, professionale, tecnica e quant’altro dopo le scuole medie. 

Invito tutti a guardarvi attorno. Se ci fate caso, dal momento in cui vi svegliate spegnendo assonnati la suoneria della sveglia a quando richiudete il libro prima di addormentarvi...
vi ritroverete circondati da cose in cui il nostro zampino sarà stato determinante (oggetti di design, graphic design, messaggi pubblicitari, editoria, packaging, segnaletica...). Siamo presenti sempre, dappertutto, nella vita di chiunque, ogni giorno. Ora chiedetevi quanta bruttezza vi circonda. Sarete costretti a rispondere che la bruttezza è tanta, troppa. E molto (de)merito è nostro. Che anzitutto non siamo stati in grado di imporre alle istituzioni corsi di studi seri, che assicurassero quanto meno basi di decenza diffuse. Ma credo di poter dire che non è solo colpa nostra: un po’ tutti, dal ministro al bidello, pensano al nostro mestiere come qualcosa di laterale, marginale. Che puó essere preparato alla carlona, e quindi da considerare non un granché - e da pagare poco, ci mancherebbe. Forse quindi restituiamo al mondo (dal ministro al bidello) quel che si merita (sottostimandoci impropriamente). 

Ma continueró a lottare per invertire la rotta, per tentare di restituire al mondo qualcosa di meglio, che lo meriti o meno.

03/07/2012 Filippo Maglione