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Grafica e comunicazione

Arte, desiderio di forma vivente

L’ennesima visita ai Musei Vaticani e alla Galleria Borghese, oltre che alla mostra romana di Helmut Newton, hanno riportato a galla il problema della fruizione dell’opera d’arte e del rapporto di questa con la realtà. Sono stati dettagli infinitesimali, quelli che mi hanno fatto precipitare in una contraddittoria, densa e per certi versi vischiosa meditazione. 

Alcuni particolari (mani, piedi, scarpe, ma anche alcuni volti e corpi) letteralmente e sorprendentemente “tirati via” da Raffaello, e dal suo entourage, nelle Stanze Vaticane, tra l’altro recentemente ripulite e molto ben restaurate. Le impronte delle scarpe lasciate sulla pedana dello studio fotografico dalle modelle protagoniste dei Grandi Nudi di Helmut Newton. La carne delle cosce di Proserpina che cede alla presa ferrea di Plutone nel grande marmo di Bernini conservato a Villa Borghese. 

Sono solo tre dei molti dettagli capaci di mettere in crisi una serena visione. Serena visione che, detto chiaramente, nell’arte non cerco. Benedetti dettagli, quindi, perché senza il dettaglio rivelatore la realtà non si manifesta, non magnetizza, non dá i brividi. Parafrasando Walter Siti l’arte, la grande arte, è infatti l’anti-abitudine, il leggero strappo, il particolare inaspettato che apre uno squarcio nella nostra stereotipia mentale, che infine sembra che ci lasci intravedere la cosa in sé, la realtà infinita.

Tento di approfondire. Grazie agli errori e alle approssimazioni delle Stanze Vaticane ho potuto immedesimarmi negli artefici, ho potuto sentire la fatica di quei pittori dal talento incostante e capriccioso sopra quel ponteggio, capitanati da un genio capace e carismatico; ma non onnisciente. Ho potuto sentire, quasi vedere, l’uomo famoso e orgoglioso della sua arte chiudere un occhio davanti all’errore e all’approssimazione; perché un artista capace di rifinire centinaia di dettagli avvincenti di certo è stato in grado di vedere e valutare appieno tali approssimazioni ed errori, che il mio occhio mediocre e inesperto non fatica a cogliere. Ho perciò “sentito” Raffaello rimuginare attorno alla possibilità di ritoccare quel dato dettaglio, magari a secco; o se addirittura non fosse il caso di scrostare e rifare tutto un tratto d’affresco. Il dubbio di Raffaello, che ho immaginato vividamente, mi ha reso viva l’opera d’arte che avevo davanti agli occhi. Ha smesso d’essere una icona, un feticcio. Ho così potuto guardarla per bene, apprezzando davvero ciò che funziona nelle Stanze, che infine é quasi tutto e in sommo grado, dal disegno delle figure al ritmo delle composizioni, dagli effetti luministici alla tecnica pittorica. L’aver colto quel poco che non funziona (il leggero strappo, il particolare inaspettato che apre uno squarcio nella nostra stereotipia mentale) ha enfatizzato, valorizzato anzi vivificato ciò che invece funziona a perfezione. Un percorso di umanizzazione dell’opera. Quasi che l’errore rivelasse l’assoggettamento di quella divinitá - il dipinto perfetto del pittore famoso - alle leggi della vita.
Un percorso simile, pur assai diverso per dimensione e profondità, ho attraversato poco dopo nelle grandi sale del Palazzo delle Esposizioni dove erano esposte alcune delle più celebri foto di Helmut Newton, le serie White women, Sleepless nights, Big nudes. Tralascio qui l’analisi approfondita della sua opera, analisi giocoforza sospesa e controversa. Mi soffermo solo sui Grandi nudi, visti per la prima volta nel loro formato originale, dopo averli ammirati innumerevoli volte in modalità mignon su libri e riviste, la prima in un memorabile numero dell’Illustrazione Italiana dell’aprile 1982. La grana evidente, l’assenza del fotoritocco digitale (Photoshop non esisteva), ma soprattutto, come detto, il pavimento sporcato dalle impronte delle scarpe delle modelle. Quello sporco involontario, solo accennato, così naturale... quante volte l’ho cancellato in fotoritocco dalle mie foto di moda! È come se le gigantesche bellezze fossero state lì, davanti a me, vive, splendidamente nude. Ed erano lì solo ed esclusivamente grazie a quel dettaglio, a quell’errore (il leggero strappo, il particolare inaspettato che apre uno squarcio nella nostra stereotipia mentale), che rendeva vere foto che altrimenti sarebbero risultate stucchevoli e forzate riproduzioni di manichini pieni di prosopopea artificiosa, nella totale mancanza di espressività, empatia, umanità; come quasi sempre in Newton. 
E che dire di quella carne di marmo che cede molle e calda alla presa della grande mano di Plutone? Che dire di quella candida roccia metamorfica che grazie all’abilitá di un artista di genio smette d’essere materia fredda e inerte? Ogni volta immagino il ghigno di soddisfazione di lui, Bernini, una volta rifinito e levigato quel dettaglio; in quel trionfo formale riconosco un’abilità che si fa quasi sberleffo, tanto si dimostra esagerata (e confermata al cubo nel successivo gruppo scultoreo, l’Apollo e Dafne). Anche qui, nel marmo berniniano, pur al contrario delle due precedenti esperienze e in maniera un po’ paradossale visto che tale abilitá pare a tutta prima disumana, emerge l’umanità dell’artefice, che sento vivo al mio fianco, pieno di sé (giustamente, del resto). 

Bernini stesso affermava che l’arte sta in far sì che tutto sia finto ma appaia vero. In questo gioco di realtà e finzione, che è anche un sottile gioco di persuasione e retorica, si delinea l’approccio verso la gran parte delle espressioni artistiche (praticamente tutte, tranne le rare opere illuminate dei Dichter, i sommi poeti, che riescono a scavare a fondo e che aprono mondi). Il giá citato Walter Siti nel suo recente saggio sul realismo in arte afferma che il fine ultimo, l’obiettivo della magia, è la tanto calunniata identificazione. Fin che il fruitore d’arte si identifica con quel che gli viene raccontato, non si ricorda di essere vittima di un inganno, e non si ribella. 

In fondo cos’è successo nei tre esempi illustrati più sopra? Ho agganciato l’opera in tre modi diversi, ma in tutti e tre i casi si è trattato di una identificazione successiva a un moto di meraviglia. Questa identificazione crea dialogo tra il fruitore e l’opera, ma prioritaria è la meraviglia. Senza un moto di meraviglia, che anzitutto è un segno d’umiltà, è assai difficile che possa scattare l’identificazione. Ma è altrettanto certo che se ci fermiamo alla meraviglia avremo scavato un solco, un confine tra noi e l’opera. 
Carlo Ossola ci offre una bella chiave di lettura: “La tensione anima la rappresentazione artistica, costruzione di segni eppure anche desiderio di forma vivente”, che riassume a perfezione tutto quel che ho voluto illustrare più sopra. 

Se rileggo ciò che ho scritto emerge però un problema, mi pare che manchi qualcosa, e quel qualcosa concerne proprio il senso. Davanti a questo genere di opere provo meraviglia, identificazione, recepisco i particolari che funzionano (cosa significa poi funzionare?) e infine provo desiderio. Nei casi migliori anche abbandono. 
Se qualcuno mi chiedesse: ma cosa significa quest’arte? Cosa significano le illustrazioni delle Stanze Vaticane, e le grandi foto di Newton e il sedere meraviglioso di Proserpina? 
In questo modo, a caccia di un senso, dovrei finire ad analizzare committenze pretestuose, e quindi pretesti meschini, orgogli personali, smanie di successo e denaro... In fondo il papa si serviva del suo artista preferito per i suoi fini d’onnipotenza terrena in una società in cui fede e assoluto detenevano ambigua forza dominante, mentre Helmut Newton, quattro secoli dopo, s’è trovato a sfangarla in una società in cui desiderio sessuale, immagine patinata, spettacolo, denaro e merce erano tutto, avendo nel frattempo sostituito fede e assoluto... 
Alla ricerca del senso sentirei contaminarsi irrimediabilmente sia la meraviglia che l’immedesimazione. E smontarsi del tutto il desiderio, va da sé. Figurarsi l’abbandono. Meraviglia, immedesimazione, desiderio, abbandono: sinonimi e parti della bellezza...

“Se guardiamo una cosa con l’intenzione di scoprire cosa significhi, finiamo col non vedere più la cosa stessa, ma col pensare al problema che ci siamo posti”. È Magritte che parla, e a me pare che con queste poche parole, riferite all’oggetto artistico, abbia esaurito il problema. A conferma che l’arte è una forma di innamoramento (legato alla bellezza). 

Tutti in amore più o meno crediamo sia necessario provare all’inizio meraviglia, poi identificazione e desiderio e infine abbandono. Tutti in amore più o meno crediamo che cercare un senso logico all’innamoramento sia solo l’inizio della più totale incomprensione. E se non lo crediamo forse faremmo meglio a crederlo.

09/04/2013 Filippo Maglione