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Grafica e comunicazione

Nel portfolio sono presenti carrellate di alcuni lavori svolti negli ultimi mesi: le nuove campagne pubblicitarie Cipollini, Philippe Gilbert per DMT, Pippo Pozzato per Giordana; l’immagine coordinata e il sito internet del Master della Cucina Italiana, i nuovi siti internet di Suavia e del Gusto per la Ricerca; la nuova immagine e catalogo di Jacketinthebox.

 


L’importanza della “buona fede”
“Ho sentito dire che nelle normali transazioni voi stranieri attribuite grande importanza all’espressione buona fede”.
La frase è di Amitav Ghosh, lo scrittore e antropologo indiano. Si può leggere in diversi modi. Per me l’unico equivale a leggervi lo scandalo (implicito) di una sotto-cultura che è costretta ad ammantare di valori sacri attività del tutto banali, per tutelarsi attorno al loro buon esito, che dovrebbe essere scontato. L’appello alla buona fede è il vero scandalo (se ci si appella a qualcosa è perché essa non è affatto scontata). La frase di Ghosh campeggiava, sovrana, in testa a una pagina della Domenica del Sole 24 Ore di qualche settimana fa. Appena sotto, un interessante articolo di Vincenzo Cerami illustrava così la “persona perbene”: 
“Per definirlo non bisogna riferirsi alla società e alle sue 
non-regole. Non esiste come categoria sociale, è persa 
nel mare magnum di una Italia onnivora e multiforme. 
È appartata, orientandosi sui sentieri della sobrietà e dell’onestà, morale e intellettuale. La persona perbene è l’unico cittadino anticonformista, quello che un tempo avremmo chiamato il vero rivoluzionario”. Si può obiettare sui dettagli, ma sono parole che colpiscono nel segno. Segni di un mondo capovolto, di uno scandalo che non fa più notizia. La frase di Ghosh e l’articolo di Cerami hanno toccato un nervo scoperto. La dolorosa fitta conseguente mi ha portato a un passo dal divagare contro quelli che oggi, approfittando della crisi, commettono allegramente abusi alla dignità di chi lavora seriamente.

Qui invece mi preme approfondire una causa generativa della crisi italiana (qualcosa che da qualche anno si somma alla crisi mondiale, aggravandola non poco), vissuta in prima persona, dal di dentro, in questi decenni tramite la mia professione. Ovvero il malinteso del “made in Italy”; della dispersione progressiva, involontaria, perciò in “buona fede”, di uno dei valori fondanti della nostra economia che, invece di essere tutelato dalle istituzioni e dagli stessi imprenditori, valorizzato e difeso a forza e propagandato al mondo, è stato svilito, confuso, privato di dignità.

Da sempre lavoro per ditte che producono beni di nicchia, per appassionati. Oggetti realizzati con cura e attenzioni particolari. Frequentare queste aziende significava anche entrare in contatto con la parte produttiva, con gli operai, insomma, che quasi sempre erano invece dei grandi artigiani innamorati e orgogliosi del loro lavoro fatto di precisione e abilità certosina. Secondo me lì, in quel misto di abilità e orgoglio, stava il cuore pulsante del Made in Italy. Era una delizia vederli lavorare, i meccanici, gli operai, gli artigiani. Con che dignità si atteggiavano di fronte alle loro opere, riconosciute come svolte a regola d’arte-italiana dagli appassionati, che poi ne fruivano con analogo orgoglio! E questo orgoglio si trasmetteva tra i proprietari o dirigenti delle aziende, le maestranze (i meccanici, gli operai, gli artigiani) e noi dello studio, che creavamo e gestivamo l’immagine. Un flusso proattivo che faceva sentir partecipi di una vera, grande, emozionante impresa, in costante divenire. Però da un certo punto in poi si è cominciato a dire che se non si produceva in Asia si moriva. E così era, senza dubbio. Sui motivi di questo scandalo sappiamo quasi tutto ma non posso argomentare, mi mancano gli strumenti e forse anche la serenità intellettuale, oltre allo spazio. Anche parecchi nostri clienti furono costretti a emigrare, quindi. E appena fuori: più numeri, più fatturato, più utile, più tutto, enormemente. Tranne l’anima, forse, dispersa in lunghi voli e contrattazioni in continenti lontanissimi. Ricordo ancora, nei primi tempi, le cautele che prendevamo nell’inserire la frasetta Made in Italy nei prodotti, nelle pubblicità. Ci si chiedeva: sarà corretto? Tra me pensavo: assolutamente no. E insieme pensavo che stavamo perdendo un valore insostituibile, il valore del fatto (veramente) in Italia. Ma come sempre, quando ci sono di mezzo enormi masse di denaro: fatto l’inganno (fruttuoso) si trova anche la legge che renda legale l’inganno (affinché frutti sempre di più). E così, un po’ come l’olio extra vergine d’oliva (per cui bastava una goccia nostrana in svariati ettolitri per poterlo etichettare come italiano), anche con tutti gli altri prodotti è bastato che il “pensiero” fosse stato partorito più o meno nel suolo patrio per potersi fregiare del tricolore marchio d’appartenenza. Ripeto: forse tutto questo era indispensabile per non perdere terreno con il resto del mondo. Ma ciò non toglie che questa perversione resti tal quale è stata (ed è tutt’ora), a prescindere dai livelli di necessità che, ripeto fino allo sfinimento, non discuto.

In questi anni si sta però aprendo lo spiraglio per un piccolo cambiamento di fronte. Un esempio eclatante in questo senso è il progetto Cipollini. All'inizio del 2010 siamo infatti stati contattati da Federico e Philippe Zecchetto, per coordinare a livello d'immagine e comunicazione un progetto produttivo che aveva appena visto la luce. A livello d’immagine esisteva solo il logo (per fortuna un Helvetica italic che ho appena ristilizzato, ripulendolo) e alcune vestizioni di bici (che ho provveduto a ripulire). C’erano soprattutto due magnifici telai monoscocca in carbonio, veramente rivoluzionari, progettati da Mario Cipollini e rifiniti da tecnici italiani, autonomamente da tutto quello prodotto sino ad allora. Uno di questi telai, RB 1000, talmente bello da mozzare il fiato, con dettagli che mi hanno da subito ricordato vagamente certe sculture di Henry Moore e Constantin Brancusi. Di nuovo tutto prodotto in Italia. Dopo due anni, in cui il brand si è affermato prepotentemente, posso tornare con la memoria alla prima visita alla fabbrica di Firenze, in cui i telai in carbonio vengono ancora oggi interamente prodotti: fu come riannodare un filo, far di nuovo parte di un progetto vero, emozionante, condiviso. Qualcosa che ci riempiva d’orgoglio, ma un orgoglio non maturato sui numeri, sul fatturato, sull’utile. Maturato sulle idee. Su qualcosa di semplice e vero, che non aveva bisogno di scomodare la “buona fede” per vedersi giustificare.

 

20/04/2012 Filippo Maglione