Questo sito utilizza cookies, anche di terze parti, per offrire una migliore esperienza. Chiudendo questo banner o continuando la navigazione acconsenti all’uso dei cookie. Per saperne di più leggi la nostra Privacy Policy.
Hai accettato l'utilizzo dei cookies da parte di questo sito

Grafica e comunicazione

Reimparare

Negli ultimi mesi mi è stato chiesto di apporre una lunga serie di ‘firme leggibili’ su ogni sorta di documento ufficiale - non quindi la mia classica firma, succinta sigla simile a uno scarabocchio che da circa trent’anni ho adottato come tale. Perciò sono stato costretto a scrivere con il preciso obiettivo di risultare intelligibile, andando oltre non solo alla mia firma, ma anche alla grafia trasandata ed estemporanea che normalmente sciorino a mio uso e consumo per segnare appunti sui foglietti sparsi (appunti che poi elaboro e approfondisco battendo dei tasti davanti a un video luminoso).

Così, cercando di arrotare lettere in modo forzato e innaturale, ho scoperto di non sapere più scrivere. Da tempo intuivo questa difficoltà, frutto di una pluridecennale mancanza di pratica, ma lì, nel momento della manifestazione forzosa, reiterata e lampante, ho provato vergogna. Il mondo da cui provengo, perché era davvero un altro mondo, prendeva la calligrafia molto sul serio - considerata quasi alla stregua della grammatica, di gran lunga la materia più importante di tutte. Nei primi anni di scuola le prove importanti, le prove sacre da cui scaturivano i giudizi decisivi, coincidevano con il Dettato e il Riassunto. Anzitutto il Dettato, in cui dovevamo trascrivere un testo che la Signora Maestra recitava scandendo con enfasi melodrammatica (le maiuscole non riescono a esprimere tutto il potere che esercitava su di noi quella donna maestosa e autoritaria, anziana e indiscutibile). I Dettati, giudicati seduta stante, venivano corretti con energici e a volte furibondi segni di penna biro rossa, corredati da un lapidario commento che andava da ‘Somaro!’, nei casi più disperati, al rarissimo ‘Bravo!’, al cospetto di prove impeccabili, vale a dire senza errori e in bella scrittura. La prova esente da errori ma non bella, vale a dire con grafia sufficientemente chiara ma non rifinita, veniva sanzionata da un inizialmente incomprensibile ‘beue’, che ci misi un po’ a tradurre in ‘bene’. All’inizio prendevo ‘beue’, non brillando nello stile formale, che però in breve affinai, con facilità e soddisfazione, passando al ‘Bravo!’.

Col senno di poi, e per ironia della sorte, mi sento di dire che proprio in quella ‘facilità e soddisfazione’ riposano i presupposti che avrebbero portato ad approcciare, e poi a scegliere e ad amare, la professione che tutt’ora pratico - che non è solo un lavoro (labor: fatica) ma soprattutto un mestiere (magisterium) e uno stile di vita. Per colmo di paradosso, una parte considerevole della mia attività professionale si è svolta, e si svolge, proprio nei territori della calligrafia, occupandomi della disposizione armoniosa di lettere e parole, pur tramite un mezzo invasivo quale il computer. Perciò scoprire questa lacuna ha generato un senso di colpa, poi evoluto in senso propositivo nell’intenzione d’intraprendere, anzitutto, un corso di rieducazione al gesto grafico, per cercare di reimparare a scrivere come si deve (per la gioia di mia sorella Tiziana, fierissima professionista grafologa).

Siccome la lettura sistematica della Domenica del Sole offre infiniti appigli alla memoria, sono andato a rispolverare un elzeviro di Roberto Casati, letto con curiosità, ma senza la dovuta attenzione, qualche mese prima (mi ci è voluto un bel po’ per ritrovarlo: la collezione degli arretrati della Domenica sta diventando difficoltosa, tracimando da librerie e cassetti). Casati, con il consueto acume, partendo dalla straordinaria e famosissima lezione breve di Steve Jobs all’università di Stanford del 2005, mette in discussione ciò che hanno raccontato i media in questi anni pontificando attorno a startup, innovazione, internet, impresa, oltre a mettere in discussione i luoghi comuni del lavorare sodo, del seguire corsi d’insegnanti stellari, della cultura d’impresa in università… insomma tutto ciò che ci sembra ragionevolmente inserito in una prospettiva di rigore metodologico-deterministico in funzione di un obiettivo preciso mirato nell’arco di tutta la sua traiettoria. Mette in discussione tutta questa smania nel ‘pianificare’ perché, in buona sostanza, in quel discorso, diventato l’emblema stesso dell’approccio al successo tramite l’intelligenza, Jobs dice sostanzialmente tre cose:

1) Che l’aver seguito un inutilissimo corso complementare di calligrafia gli permise poi, dieci anni dopo, di progettare un certo tipo di computer che ha cambiato il modo di lavorare di tutti: l’interfaccia grafica del Mac, e dei suoi imitatori, nasce da un’ossessione (inattuale, anzi antica) per l’eleganza della scrittura e della tipografia. 2) Che venir licenziato dalla società che egli stesso aveva creato si è rivelata la cosa migliore che potesse capitargli. 3) Che il miglior modo di essere creativi è di ricordarsi, giorno dopo giorno, che si è mortali.

Casati giustamente afferma che l’ultimo punto rimanda a una vicenda personale un po’ mistica, legata alla malattia che lo ha accompagnato negli ultimi anni di vita, e il secondo racconta un caso molto particolare e forse irripetibile di parabola aziendale. Si concentra invece sul primo, dal valore più universale, in grado quindi di farci meditare seriamente anzitutto sulla fase della ‘formazione’, non solo scolare o universitaria, in un mondo sempre più liquido, complesso e aleatorio, senza più reali punti di riferimento e sostegni certi.

Jobs, attraverso la sua esperienza, ci fa capire che il filo conduttore può essere chiaro solo alla fine del percorso, a patto però che all’inizio ci sia la fiducia nel fatto che in qualche modo un filo conduttore si troverà (senza questa fiducia non si otterrà comunque nulla). Dice che dobbiamo crederci, anche se la promessa del futuro non ha un contenuto preciso, perché non possiamo sapere oggi quello che servirà domani, non avendo la minima idea di come sarà fatto il domani (intanto però iniziamo imparando con passione qualcosa di bello e difficile, e apparentemente inutile, come l’intricata complessità visiva della parola scritta e del carattere tipografico; poi vedremo).

E così, da questa bella ed eccentrica prospettiva jobsiana, finisce per sembrarmi un po’ bizzarro il mio percorso a ritroso, costretto a intraprendere una seconda volta il rito d’iniziazione a un’arte quanto mai decisiva per la mia formazione, riannodando il filo della fiducia al contrario: una fiducia, stavolta, rivolta al passato.

06/06/2017 Filippo Maglione