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Grafica e comunicazione

In questi ultimi mesi siamo stati impegnati nella riorganizzazione dei due marchi storici del Gruppo Zecchetto (Cipollini e DMT), ridefinendone i capisaldi concettuali e studiando le nuove campagne pubblicitarie mondiali (Cipollini Monocoque, Cipollini Custom Made, DMT Freedom For Your Cycling). Più distensivo il lavoro svolto per l’immagine e il catalogo di una mostra dedicata al grande fotografo americano Ron Galella e alla sua ossessione per Jackie Kennedy Onassis.

 

L'italiano è meraviglioso

Non càpita spesso di imbattersi in un libro che vorremmo esser stati noi a scrivere. Di recente, con L’italiano è meraviglioso di Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca, ho provato questa sensazione. A parte la copertina (bruttissima, perciò fuori tema) e le conclusioni (bellissime, ma fin troppo ottimistiche) è un libro che sento mio, perché capace di trattare, organizzandoli e chiarendoli, una serie di argomenti che da tempo affollano la mia mente in maniera confusa, e dolorosa. Un libro importante, che ho talmente apprezzato da cercare di diffonderne il contenuto attraverso il testo che segue - ricalcato su quello di Marazzini, solo riassunto e a tratti parafrasato, intercalato da alcuni piccoli ulteriori spunti e considerazioni personali.

La storia della lingua italiana è singolare, ben diversa dalle altre lingue di cultura. Anzitutto, prima è venuta la lingua, solo molto dopo è venuta l’Italia. Di più: solo la cultura e la letteratura hanno permesso la maturazione di un’idea di nazione, perché senza l’una e l’altra a nessuno sarebbe venuto in mente di unificare un territorio così diverso nelle sue varie parti. Questa sequenza di eventi è un unicum, per lo meno tra le principali lingue di cultura. Di norma la storia di una lingua è frutto di conquiste e di espansioni territoriali sulla base di un certo potere politico, imponendosi seguendo le armi e gli eserciti. Così è successo al latino, la madre delle lingue romanze, al tempo dell’Impero di Roma, e alle lingue coloniali, all’inglese, al francese, al portoghese e allo spagnolo. Senza il colonialismo l’inglese sarebbe un brutto idioma relegato a un’isola per nulla ridente. Senza gli efferati conquistadores lo spagnolo vanterebbe 40 milioni di parlanti, non gli attuali 400 milioni. Se vogliamo sapere chi o che cosa ha fatto diventare grandi l’inglese, il francese e lo spagnolo dobbiamo riferirci alla storia di alcune monarchie, a imprese militari, guerre, invasioni, imprese coloniali, sangue e vittime. Il successo di queste lingue gronda violenza, perciò il paragone con la storia della nostra lingua lascia di stucco. In questo caso il successo internazionale (e grandissimo fu il successo nei secoli passati), si deve unicamente all’interesse per la nostra cultura - interesse dovuto all’egemonia culturale esercitata proprio grazie, e tramite, la nostra lingua. Un interesse che rimonta al periodo dell’Umanesimo (per altro sbocciato proprio a Padova) e che trova il suo sviluppo nel Cinquecento, quando tutta l’Europa fece propria la poesia di Petrarca, come paradigma di bellezza e armonia, e assimilò il modello novellistico di Boccaccio. Il Canzoniere e il Decameron furono imitati da tutti (più della Commedia di Dante, troppo originale e irripetibile per prestarsi a modello). Il petrarchismo e la novellistica alla maniera di Boccaccio diventarono fenomeni europei, non solo italiani. In questo caso, è proprio il caso di dirlo, potè più la penna che la spada.

L’italiano, a differenza delle altre lingue, ha perciò una forza intrinseca che è al contempo una debolezza: è una lingua colta, sin troppo colta, che non ha posto le sue basi, come tutte le altre, sulla lingua viva del parlato, quindi essenzialmente sulla lingua del mondo degli affari, ma che è stata letteralmente estratta da grandi opere d’arte. Forse anche per questo è stata messa a norma piuttosto tardi, nel primo Cinquecento, grazie al fiuto e all’abilità di due letterati di origine veneta, Giovan Francesco Fortunio e Pietro Bembo, nobile veneziano di casa a Padova. Prima di allora ogni letterato impegnato a parlare o a scrivere in italiano tendeva a ritagliarsi una propria norma, nel puro spirito individualistico che da sempre caratterizza gli italiani. I due grammatici, a pochi anni di distanza e in maniera parzialmente autonoma, leggendo i grandi scrittori (Dante, Petrarca e Boccaccio), ammirati da tanta perfezione formale e da tanta armonia, definirono la grammatica tramite quei testi, non badando minimamente al “disordine da riordinare” della lingua viva del popolo. Bembo, che in breve divenne il detentore della norma, aborriva sopra ogni altra cosa la popolarità, a suo parere capace di guastare irrimediabilmente la purezza della lingua. Anche per questo l’italiano si stabilizzò come lingua colta, d’élite. Questa è stata per secoli l’inimitabile forza della nostra lingua, ammirata in tutto il mondo per la sua carica di raffinata letterarietà e per la sua naturale cantabilità (inutile ricordare i fasti della forma d’arte per eccellenza, l’alchimia di musica, canto, teatro e arti plastiche capace di portare in scena tutte le passioni umane in un unico spettacolo, emozionante ed intenso: l’Opera lirica, o Teatro d’Opera, frutto del genio e della lingua italiana). Questa letterarietà, questa altezza, è stata anche la sua debolezza, quando è dovuta diventare lingua di popolo. Era nata vicina al popolo nel Medioevo, nel disordine di una sterminata varietà territoriale, allontanandosi da esso in tutto il periodo della stabilizzazione normativa del Cinquecento e trovando in breve la propria dimensione di lingua egemone della cultura mondiale. Tornando al popolo, al tempo del grigio diluvio democratico novecentesco, ha iniziato a perdere smalto, pur mantenendosi tutto sommato ben salda fino allo scadere del secolo.

Oggi la dittatura dell’inglese mette a rischio tutte le altre lingue. La nostra in primis, proprio perché, nonostante la contaminazione popolare, resta di base una lingua colta e letteraria, quindi non abbastanza rattrappita, economica e risoluta. Si tratta del problema della globalizzazione, che appiattisce tutto sulla base di un’utopia universalistica e utilitaristica incapace di dare i frutti sperati. Non si tratta qui di contrapporsi all’ineluttabile (la globalizzazione pare lo sia) quanto di non sforzarsi a esasperarne le conseguenze più negative, o ancora meglio, di tentare di conviverci senza rimanerne schiacciati, annichiliti. Mantenere una parte non globalizzata delle nostre migliori tradizioni e abitudini dovrebbe essere un dovere, una forma di rispetto verso noi stessi, perciò una necessità. Non si tratta di qualcosa di impossibile, anzi. Le altre nazioni di maggior tradizione culturale difendono la loro lingua, o almeno ci provano. Noi, invece, non perdiamo occasione per offenderla, a tutti i livelli. E se l’offesa al livello più basso non può meravigliare nessuno, è l’offesa perpetrata dall’alto che non può essere taciuta.

In Francia la tutela della lingua nazionale è ancora al centro del dibattito politico, tanto che una delle più gravi accuse che Marie Le Pen ha rivolto a Macron nell’ultima campagna elettorale, prendeva di mira proprio il suo (presunto) scarso interesse verso la protezione della lingua francese. Accusa respinta con toni fermi proprio nell’appello finale agli elettori, esaltando l’amore per “notre langue qui m’a fait” (“la lingua che mi ha fatto”, espressione che rende bene la funzione formativa di una lingua che si rispetta e si ama). Si sono mai sentiti uomini politici italiani dire qualcosa di simile nel momento decisivo di una battaglia elettorale? I politici italiani sono coloro che ai consessi internazionali intervengono con l’uso della sola lingua inglese, quando il rappresentante tedesco interviene in tedesco, il rappresentante francese in francese, quello spagnolo in spagnolo (mi verrebbe da dire: ovviamente). In questo modo l’inutile sfoggio di vanità poliglotta del politico italiano va ben oltre il provincialismo che vorrebbe smentire, definendo solo la sua posizione pecoresca, servile. Ma qualcosa di ancóra peggiore incombe sulla nostra amata lingua - ché nella politica da un pezzo abbiamo smesso di contare -, qualcosa che è emanazione velenosa di un mondo che si vorrebbe meno corrotto e superficiale dell’altro.

Nelle nazioni avvedute gli studenti stranieri, attirati in base ai criteri di internazionalizzazione nelle Università, sono sottoposti a corsi della lingua del paese ospitante. E anche questa sembra risoluzione ovvia, scontata. Qui in Italia, invece, l’internazionalizzazione è intesa solo per attrarre studenti da far vivere in un ambiente artificiosamente, e superficialmente, inglese. Lo scopo non è avvicinarli alla nostra cultura per condividere esperienze e conoscenze, quanto fare numeri, creando così una situazione paradossale, in cui la presenza di alcuni studenti stranieri viene invocata come pretesto per costringere studenti italiani a sopportare mediocri lezioni in lingua inglese. E proprio nel mondo dell’Università, che dovrebbe difendere e propagandare la nostra cultura, sono nate e si sono sviluppate le posizioni più ostili alla lingua italiana, che hanno persino portato il tema della lingua nei tribunali, con un giudice chiamato a intervenire per evitare l’abolizione dell’italiano dall’insegnamento universitario (il tristemente noto caso del Politecnico di Milano). Per buona sorte la sentenza ha sottolineato che le Università possono attivare i corsi in inglese che ritengono necessari, organizzati però in un sistema equilibrato, commisurato sul primato della lingua italiana (concetto semplice ed elementare, che rispetta l’articolo 9 della Costituzione, per altro). E non vale nemmeno la pena dilungarsi in merito ai corsi in inglese così come spesso sono organizzati, con un uso superficiale del globish, l’inglese globale lingua franca, del tutto inadatto alla lingua scientifica e alla didattica avanzata, o, bene che vada, con un inglese molto più modesto dell’italiano, che sarebbe ben più funzionale per una comunicazione di qualità di fronte a un pubblico costituito in grandissima parte da italiani. La sentenza, che difende il diritto di scelta necessario alla libertà didattica contro chi voleva imporre un atto di autoritarismo linguistico, ha così scongiurato, in zona Cesarini, l’imposizione del Politecnico che toglieva totalmente il diritto all’italiano agli stessi italiani (verrebbe da ridere se non ci fosse da piangere). Così l’Università sta cercando di debellare la lingua italiana, considerata scoria del passato da cancellare senza colpo ferire, non capendo che in questo modo arriverà a cancellare sé stessa dal panorama internazionale, la propria necessità. Ovviamente riuscirà nell’intento, prima o poi. La strada è segnata, ed è solo questione di tempo.

I sostenitori del Politecnico di Milano hanno abusato del paragone con nazioni come la Finlandia e l’Olanda, paesi costretti a un uso dell’inglese più largo del nostro, anzitutto per un raffronto numerico di parlanti: i nostri 60 milioni sono ben altri rispetto ai 16 dell’Olanda e ai 5 della Finlandia (la sola Lombardia arriva a 10). Ma non solo, perché qui stiamo discutendo di ben altro: l’italiano è una delle quattro grandi lingue di cultura dell’Occidente, lingua ufficiale anche in Svizzera (che nel suo piccolo rispetto a noi s’industria con ben altra acribia in sua difesa) e ricca di addirittura due milioni di persone che la studiano all’estero, quarta lingua più studiata al mondo secondo i dati ufficiali. Perciò, se dovessimo guardare a un modello, dovremmo tornare proprio in Francia dove, a fronte di una difesa strenua del proprio idioma con l’attiva e pugnace partecipazione della loro Académie, si riesce ad attuare comunque una politica economica ben più espansiva ed efficace della nostra, nel panorama internazionale. Guardare alla propria lingua con affetto e fiducia non vuol dire non imparare l’inglese, anzi: conoscere bene la propria lingua madre è l’unica base per apprenderne bene anche altre, misurandone il livello di possesso. Anche per questo i francesi, mediamente, parlano l’inglese molto meglio degli italiani. Scambiare per internazionalizzazione la dismissione dell’identità nazionale non è solo da idioti, è da criminali, e ciò che più sgomenta è che idioti e criminali pullulano proprio nelle nostre Università, spesso avendole in pugno.

Siamo però tutti colpevoli, chi più chi meno. Quante parole inglesi usate ogni giorno sono davvero indispensabili, vale dire con un contenuto non corrispondente a parole italiane, e quante invece le inutili, perfettamente sostituibili da un corrispondente in italiano? CEO (che in dialetto veneto significa piccolo, minuscolo, bambino) è l’amministratore delegato. L’auditing è una semplice audizione. Il cluster è un gruppo. L’endorsement ha molti equivalenti in italiano, da adesione a sostegno (con facilità di pronuncia e suoni infinitamente migliori, che lo dico a fare…). Fake news sono false notizie o, ancora meglio, fandonie, con in più quel piglio spregiativo. E si potrebbe continuare a sfinimento. Tutte parole inglesi perfettamente inutili, quindi, oltre che orrende, colorate però da una superiorità che esiste solo nella mente di chi adopera questi termini per darsi l’aria di tecnocrate.

Anche passando sopra a queste ridicole contaminazioni, che con bontà d’animo potremmo definire modaiole, chi parla e scrive in lingua italiana, quanto la rispetta? Non esiste più il senso di vergogna e inferiorità che un tempo ci coglieva quando sorpresi in errore, non esistono più criteri di auto correzione. La trascuratezza nella comunicazione e l’errore non fanno più paura, non destano più preoccupazione. Ci si crogiola, anzi, in un italiano deteriore e sciatto, se non proprio analfabeta. Per questo troppe persone credono di saper leggere e scrivere, senza in realtà saperlo fare, per questo infine non capiscono ciò che credono di aver letto. L’approssimazione nell’uso della lingua accompagna, e ha per conseguenza, un’approssimazione nella sostanza, che rende impossibile ogni apprendimento - figuriamoci l’approfondimento e lo spirito critico. Non a caso i test compiuti su campioni rappresentativi di popolazione di età compresa tra i 16 e i 65 anni in 24 paesi (22 membri dell’OCSE), che rilevano per esempio la capacità di comprensione di testi scritti, ci vedono brillare al contrario, come fanalino di coda (i peggiori di tutti per competenze linguistiche).

E gli italiani che sanno scrivere, le élite che vivono di scrittura, come scrivono? Se guardiamo ai giovani romanzieri ci sarebbe da disperarsi. Molti di loro scrivono in un’altra lingua, più simile alla traduzione da un succinto inglese che a quella lingua “altrettanto perfetta quanto immensa” di cui parlava Leopardi due secoli fa, lingua con cui lui, il grande recanatese, si esprimeva altrettanto perfettamente e immensamente, pur conoscendone altre sette.

Così si sta chiudendo questa storia, la storia della lingua italiana, fatta non d’armi e sangue, per una volta, ma di pura bellezza. La nostra nobile lingua sta morendo. Ciò che più affligge è non vederla morire con onore, come di solito muoiono le lingue, assassinate da mano straniera. Sta morendo per mano amica. Un suicidio, in realtà. Stupido, inconsapevole.

28/09/2018 Filippo Maglione