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Grafica e comunicazione

In questo scorcio di primavera hanno visto la luce, tra gli altri, il lavoro introduttivo del locale parigino Stern, la nuova campagna pubblicitaria mondiale Alé, il libro a celebrazione del quarantesimo anno di vita di un grande artista: Max Alajmo.


Luoghi

I politici sono tutti ladri; la legge non è uguale per tutti; ti accorgerai quando avrai dei figli; i bambini di oggi sono più intelligenti; i bambini di oggi senza calcolatrice non sanno fare due più due; una volta i cibi erano più sani; non c’è più nessuno che lavora la terra; le donne non sanno guidare; dove si fermano i camionisti è lì che si mangia bene; questa macchina era di un anziano che la teneva sempre in garage; su internet trovi tutto quello che vuoi; chiusa una porta se ne apre un’altra; non è per i soldi, è per il principio; si stava meglio quando si stava peggio; oramai ti fanno pagare anche l’aria che respiri; con la filosofia non si mangia; ha le capacità ma non si applica; se hai le qualità prima o poi emergi; premetto che non sono razzista; l’importante è essere giovani dentro; con questo tempo non si sa più come vestirsi; se una ragazza è bella allora è oca; se non ti ama non ti merita; non è bella ma è simpatica; prova a buttare una carta per terra in Svizzera; come si mangia a casa propria non si mangia da nessuna parte; pensa ai bambini del terzo mondo che muoiono di fame.

Si potrebbe proseguire all’infinito. I luoghi comuni fanno sorridere, se messi in fila. In genere poi li si considera sempre in bocca agli altri (altro luogo comune), solo perché quando sono in bocca nostra diventano verità indiscutibili, con la solita magnanimità di chi giudica sé stesso. E invece tutti ci barcameniamo tra un luogo comune e l’altro, magari solo infiocchettandoli diversamente, variando qualche sfumatura, colorandoli un po’. Un derivato del luogo comune è il proverbio, detto anche ‘saggezza popolare’, che non è altro che un ossimoro in quanto la saggezza tra le virtù è forse la più impopolare di tutte, potendo maturare solo dall’osservazione pacata e diretta, profonda ed equilibrata delle cose, dei fatti e delle persone da parte di uno spirito acuto dedito all’analisi critica e logica delle cose del mondo. La virtù elitaria per eccellenza.

Noi pubblicitari, giocoforza, siamo alleati al luogo comune. Che lo si voglia o no gli slogan, le cosiddette headline, e i testi pubblicitari più o meno estesi devono passare attraverso una selva di luoghi comuni. Arrivo a dire che lo slogan perfetto è quasi sempre quello che riproduce, parafrasa o richiama un luogo comune o un proverbio. Più celebre è il luogo comune o il proverbio, più facilità di presa avrà il messaggio. Essenziale sarà sempre accompagnarlo ad altre sollecitazioni verbali e visive che riescano a connotarlo in maniera non del tutto convenzionale - e qui si gioca la credibilità del professionista. Si può usare il luogo comune in negativo (per smentirlo, presentando una novità assoluta) o in positivo (per confermare qualcosa ‘come-mai-prima’). Perciò un pubblicitario di razza ci sguazza nel luogo comune: lo coltiva, lo celebra, finendo per amarlo pericolosamente. In fondo gli risolve buona parte dei problemi creativi, perché non dovrebbe averlo caro?

In passato sono vissuto a stretto contatto con un vero maestro del luogo comune. Scandiva il ritmo delle giornate su di esso; amava esporlo con regolarità alle persone vicine, quasi sempre sotto forma di proverbio, declamato a voce stentorea col piglio della definitività. Ho potuto cogliere negli anni tutta la fascinazione, direi quasi l’ebrezza di veder ‘sigillare’ ogni momento, ogni fatto pubblico e privato, ogni disgrazia, ogni gioia propria o altrui... da una formuletta decisiva, indiscutibile e perciò tranquillizzante. Una formula che in questo modo rivelava sempre, ai suoi occhi, il senso profondo delle cose. Arrivo a definirlo quasi un metodo filosofico: dall’incastro di tutti quei proverbi (o luoghi comuni) derivava infatti un sistema affatto peregrino, con una certa causalità, una morale, una logica, addirittura una parvenza di teleologia.
Per un certo periodo mi sono illuso di poter mettere in crisi, bonariamente, quel sistema, quella cattedrale tetragona (ai miei occhi fatta di materiale di scarto del pensiero) con l’argomentazione, con la dialettica. Preso però atto dell’inscalfibilità di quella cattedrale, ho finito per considerare quell’assenza di pensiero critico solo un utile contrappeso allo sforzo contrario che stavo esprimendo in quegli anni, per non venir irretito nella modalità tipica del pubblicitario di professione, fatta di un linguaggio (e perciò di un pensiero, essendo l’uno legato all’altro) semplificato, banale, esclusivamente utilitaristico - insomma non così diverso da quello tanto deprecato del ‘maestro del luogo comune’, e solo di poco più consapevole.

Sempre a proposito di luoghi comuni. Tra tutte le mie eccentricità quella che desta sempre maggior costernazione è l’avversione a viaggiare. Quando capita di rimarcare questa caratteristica, e mi capita spesso essendo il viaggio e la vacanza le espressioni più alte della religione globalizzata e perciò l’argomento sociale per eccellenza, dicevo, quando mi capita di affermare che no, a me non piace viaggiare e che perciò in quel posto ‘irrinunciabile’ non ci sono mai stato e mai ci starò... non posso fare a meno di notare negli interlocutori un moto più o meno esplicito di compassione, che in alcuni si trasforma in disgusto, simile a quello del sano di fronte al lebbroso. E dalle anime belle, quelle meno inclini al disgusto, mi devo sciroppare anche la paternale: scandendo bene, come se si rivolgessero a un bambino ritardato, mi spiegano il valore assoluto del viaggio: che il viaggio, oltre a divertire tutti come dei matti, crea conoscenza, fa diventare migliori, apre le menti (di qui il mio ritardo, evidentemente).
Anche in questo caso per un certo periodo ho cercato di contrastare la soave e illuminata visione del mondo, opponendo la mia. Esordivo brevemente con la lista dei banali disagi pratici patiti in viaggio, le interminabili file, la sporcizia diffusa, la precarietà, il cattivo cibo, i tempi morti...; poi mi spostavo sulla oramai acquisita omologazione mondiale, in forza di un consumismo parossistico e sterminato, che fa sì che solo le periferie del mondo in cui si muore letteralmente di fame possano oggi davvero dirsi ‘luoghi non comuni’, oltre ovviamente alle sciagurate regioni teatro di guerra; infine, e questa era l’argomentazione decisiva, provavo a dimostrare come questa nuova religione, rendendo possibile una mobilità perpetua a livello teorico (nella preparazione del viaggio) e a livello pratico (nello svolgimento) permette di occupare costantemente la mente in un ‘altrove’ indefinito e provvisorio, evitando quindi di fermarsi a pensare a ciò che realmente si è, a quali siano i nostri valori e disvalori, quale il nostro ruolo nella società, quali le prospettive, quali i problemi di fondo da risolvere, quali i nodi da sciogliere. In questo modo cercavo di descrivere il viaggio come la forma perfetta della irrefrenabile ed efferata fuga da sé.
Fin troppo facile immaginare gli esiti disastrosi di queste mie opposizioni indebite. Per cui, per evitare di crearmi schiere di nemici, da un po’ ho rinunciato al confronto sul tema. Così ho potuto assistere, con il necessario distacco, alla diffusione di questa particolare sottospecie di setta composta da miliardi di seguaci convinti e volitivi - e troppo spesso fanatici.
E ho finito oramai per accettare di buon grado anche l’immancabile encomio sperticato e inebriato a una città non così speciale qual è in realtà Barcellona (un vero e proprio ‘super-luogo comune’ di questo scorcio di millennio, simboleggiato a perfezione da quel grumo di protervia e cattivo gusto che chiamano Sagrada Familia), limitandomi a sorriderne tra me, immaginando quell’inoffensivo e molle fiume d’ilarità contagiosa che coglie le moltitudini di cosmopoliti transumanti le celeberrime Ramblas.

28/05/2014 Filippo Maglione