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Grafica e comunicazione

La creatività sta a monte del Martini

Due emergenze di recente mi hanno fatto rimeditare il concetto di creatività. La prima: “Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può. Del genio ho sempre avuto la mancanza di talento”. Sono parole di Carmelo Bene che, come afferma Renato Palazzi, “ha impresso l’impronta di un genio assoluto, il genio che sovverte tutte le categorie, tramite un estro fondato sul cortocircuito tra una recitazione alta, dalla purezza classica, e una feroce dissacrazione”.
La seconda emergenza è più modesta, pratica: la redazione del mio curriculum vitae. L’ultimo credo d’averlo vergato (letteralmente) non meno di un quarto di secolo fa. A parte l’evidente imbarazzo nel presentare me stesso a un altrui indistinto, mi sono guardato bene dal far figurare la parola “creativo” riferita alla mia persona, per illustrare il mio ruolo professionale. Perché l’ho fatto, visto che sono convinto che la creatività sia un momento centrale del mio lavoro? Per una cautela, ovvero per non incappare nel malinteso che spesso provoca l’uso distorto di tale parola? Oppure per un timore, quello di apparire velleitario, mettendomi allo stesso livello dei grandi creativi, gli artisti veri del genere di Bene? No, non è stato il timore di apparir velleitario ma solo la cautela nei confronti del malinteso, che ho l’urgenza di sciogliere. Mi aiuto col Battaglia che alla parola Creativo dà le tre definizioni che tutto sommato mi aspettavo; la prima riferita al porre in essere le cose (e giustamente nell’inciso chiarificatore si cita direttamente Dio); la seconda indica chi dà impulso e forza all’attività, alla vita e al pensiero; la terza infine si riferisce a chi crea un’opera d’arte, che è propria dell’invenzione estetica.

La parola “creativo”, nell’ambito in cui ci stiamo muovendo, non ha nulla di generativo; la prima definizione, quella che implica Dio, va quindi esclusa decisamente, anche se condiziona fortemente gli scettici (“Creativo di che? Cosa crei? Ti senti Dio, per caso?”). Le altre definizioni le trovo entrambe congrue, ma senza approfondimento anch’esse risultano facilmente equivocabili. Specie quella riferita all’artista con quell’“invenzione estetica”, che somiglia troppo al coniglio dal cilindro.

Pesando la mia esperienza e le novelle sollecitazioni e relative acquisizioni (quando sono sollecitato ho l’antica abitudine d'acquisire, cioè d’imparare) sono infine arrivato a supporre che il termine creativo riferito ai creativi di professione (e comprendo anche gli artisti propriamente detti, quindi anche Carmelo Bene) indica, al più, il barlume di rischio che ci si assume offrendo a un pubblico un intruglio (di materie, parole, note, ingredienti, immagini, concetti, colori...) che abbia anche solo un principio di originalità. La logica è più o meno questa: metto insieme conoscenze pregresse e cose, che possono essere materie, parole, note, ingredienti, immagini, concetti, colori... che credo non siano mai stati combinati precisamente in quel modo prima d’ora e che per me, infine, hanno un senso preciso, offrono un messaggio originale. Condisco il tutto con un tratto personale, una intonazione, una disposizione, una pennellata... riconoscibile come mia (sono io che guardo me stesso, per cui questo “mio” è relativo, è un’intenzione, pur verace, ma nulla più). Ho creato il mio messaggio e mi assumo la responsabilità, e il rischio, di presentarlo a un determinato - o indeterminato - pubblico. In questo modo mi pare evidente che sto esercitando il ruolo di creativo. Al di là del successo o del fallimento (di qui il rischio di cui sopra) che ne consegue. 

Vorrei ora porre attenzione al fatto generativo di questo percorso, alla sorgente di tutto, che è la conoscenza, il sapere. Imprescindibile affinché il resto si compia, affinché il talento e/o il genio (non sono sinonimi come avverte Bene) abbia agio d’esprimersi. Sto quindi parlando di creatività come atto residuale. Residuale alla conoscenza. Decisivo, certo, ma non per questo meno residuale. Non potrebbe essere altrimenti. Perfino un talento e genio assoluto come Bach si è fatto forte di una serie di conoscenze profondissime riprodotte a perfezione fino a lambire il terreno del plagio più smaccato, più e più volte, per arrivare a lasciarci il residuo che lo rappresenta, che è enorme nel suo caso, e che lo differenzia e lo caratterizza come artista, creatore di sublime bellezza e di una precisa idea musicale, che è appunto il residuo di cui sopra. Quanta conoscenza (e genio e talento) è stata necessaria a Botticelli per creare la sua Nascita di Venere, quella miracolosa, musicalissima stilizzazione femminile che anticipa le avanguardie di quasi mezzo millennio? Tantissima conoscenza, più il quid di talento e genio che è stato in grado di sfoderare così poche volte in carriera, purtroppo. Ma prima, anche per lui ch’è stato un talento e genio assoluto, è venuta la conoscenza, lo sforzo d’imparare la tecnica al punto da non doverla pensare più, perché diventata parte di lui; che è anche lo sforzo d’intelligenza del saper confrontare la sua, di tecnica, con quella degli altri artisti, operanti prima di lui e a lui contemporanei, con vero spirito autocritico. Che infine è lo sforzo (e la passione) di analizzare, pianificare, organizzare ordini di conoscenze diverse, vaste e complesse (nel caso specifico, tra le altre, la statuaria classica; le fonti del mito, sia in linea diretta, sia reinterpretate dal Poliziano; le lezioni sull’equilibrio e la simmetria di Leon Battista Alberti...). 

La creazione, la creatività, il partorire un’idea, magari anche solo quel micragnosissimo residuo che differenzia la nostra sparutissima opera di un millimetro da quel che fin lì abbiamo avuto sotto il naso... presuppone quindi sforzi, fatica, sudore, pazienza. E presuppone passione. Tanta passione. E presuppone una rigorosa organizzazione mentale. Presuppone tanta roba, insomma. Ne è la prova ancora lui, Carmelo Bene, che prima di sferrare i suoi feroci (e impagabili) atti dissacratori, si è rimodulato sulla purezza dei classici, sulla recitazione alta, frutto di passione pazza e studi maniacali. E anche quando l’artista, o il genio, vive nel disordine esteriore più totale, nella sua testa la misura del da farsi è chiara, persino nel dubbio, anzi soprattutto in questo fecondissimo territorio - che è la chiarezza del veggente che avanza a tentoni. E questa chiarezza, che nei casi più alti diviene preveggenza, è sempre conseguenza di conoscenza, e dello sforzo e della passione che la presuppone. Il genio che si sveglia alla mattina e crea di punto in bianco qualcosa di originale (come Dio la luce il primo giorno) in un campo che fin lì non l’ha mai visto protagonista in questo tipo di sforzi e passione, semplicemente non esiste. Spiace deludere molti giovani lavativi che magari credono, e mirano, all’artista perdigiorno e neghittoso. Potrà arrivare a esserlo, certo, ma senz’altro dopo aver passato la sua brava dose di sforzo e di passione. Ci si può scommettere.

Mi sono riferito agli artisti propriamente detti. Il senso della creatività, e la relativa trafila, nel nostro mestiere è più o meno lo stesso, anche se il prodotto residuale è di natura e peso affatto diverso. Nel nostro settore è normalmente parecchio ridotto, anche perché comunicando a un pubblico preciso e su precise commissioni e precisi obiettivi strategici, e dovendo comunque trasmettere messaggi intelliggibili ai più... il margine di libertà resta risicato; a volte addirittura risicatissimo a causa di una committenza ignorante (è una definizione neutra, attinente al vero significato, non un insulto) ma non per questo restìa a infliggere gragnuole di consigli, suggerimenti, raccomandazioni, paragoni. Ma infine è solo una differenza di grado. Oltre tutto in termini di assimilazione al mercato non differiamo poi molto dagli artisti propriamente detti, tranne che la nostra è sempre una assimilazione schietta, diretta, mentre la loro è per lo più mascherata e differita (per i rarissimi puristi rimasti in circolazione solamente accidentale).

Torno al malinteso. Capisco come molto spesso l’uso inflazionato della parola “creativo” possa generare un fondo di scetticismo per la distorsione che se ne dà soprattutto in termini di autoattribuzione: al giorno d’oggi chiunque non sia in catena di montaggio si considera creativo. Tutti i grafici neodiplomati a domanda precisa, su cosa si considerino in quel preciso momento (in cui presentano una candidatura, mica su ciò che vorrebbero diventare) rispondono immancabilmente: creativo. Poi li butti nel mare magnum della competizione creativa per metterli alla prova e dimostrano la creatività di un pesce rosso - che al limite andrebbe prima svezzato per bene per serbare nel cuore la speranza, dico, solo la speranza di diventare squalo, un giorno lontano. Per questo ognuno di noi dovrebbe essere in grado di pensare a sé stesso come a un creativo (in potenza, perché infine devono essere altri a riconoscerci tali) solo dopo un faticoso percorso di conoscenza, capace di metterci alla frusta, in crisi. E solo dopo aver provato l’entusiasmo, la passione assoluta per quel determinato settore in cui vorremmo, un giorno, essere riconosciuti come appartenenti dal resto del mondo.

Attraverso la barricata. Mi piacerebbe che certi committenti davanti ai produttori d’idee, e quindi ai cosiddetti creativi, non si comportassero come di fronte ai saltimbanchi. È infatti diffusa la convinzione che la creatività non costi fatica, sia qualcosa che si fa in totale decontrazione, magari sotto la doccia, a tempo perso, o sorseggiando un Martini circondati da belle donne. Un lavoro da scioperati, quindi, che non è ammissibile far rientrare in qualsivoglia capitolo di spesa e che al limite va ripagato con un obolo, o meglio, con una pacca sulle spalle e una promessa di (veri) lavori e compensi futuri. Un modo di pensare che nei paesi realmente civili che frequento (Francia e Germania) non trova corrispondenza, e che invece qui è piuttosto diffuso. Ennesimo segno del decadimento culturale di questa nostra benedetta nazione. Altrove la creatività è vista con rispetto, come vera emergenza culturale, segno di progresso e marchio d’orgoglio. Perché altrove si sa bene che le idee (quel “residuo” così provvidenziale per la crescita) servono. E vanno pagate. 

Per onestà sono anche costretto ad ammettere che non poche delle mie migliori idee (fortemente residuali, sia chiaro e lo dico senza falsa modestia) le ho partorite sotto la doccia o sorseggiando champagne (di recente anche il Martini). Ma come credo sia chiaro, l’essenziale sta a monte del Martini (che costa fatica scalare).

30/03/2012 Filippo Maglione