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Grafica e comunicazione

Pochi, isolati e sterili fessi

Recentemente mi sono confrontato con una collega, Chiara Grandesso, sullo stato di salute del nostro settore. A riprova che la riflessione non ha avuto esiti confortanti, abbiamo concluso che ci riesce difficile definirci in termini professionali agli occhi del mondo, e che proviamo un po’ di vergogna ad appellarci “grafici”.
 
Nei giorni seguenti mi sono dato pena nel cercare di definire le cause di questa triste china: all’inizio della carriera definirci (o sentirci definire) “grafici” era per noi un onore, un sigillo di nobiltà. Facilmente sono arrivato a determinare la causa prima nella mancanza di una vera “scuola”, che è nient’altro che porre l’accento su un’evidenza lapalissiana, pur drammatica. Ma mi sono detto che non poteva essere solo questo. In Italia a moltissime professioni manca una scuola d’adeguato livello, ma poche hanno subìto un crollo di credibilità paragonabile al nostro. Ho quindi analizzato il cosiddetto “progresso tecnologico”, che ha investito con un’onda d’urto micidiale le generazioni di grafici successive alla nostra, e che ha fatto tabula rasa di quell’approccio d’artigianato artistico che aveva caratterizzato, e nobilitato, il nostro mestiere per larga parte del ‘900. Un male inteso “potere tecnologico” rende infatti l’uomo inerme a sé stesso, refrattario al pensiero, alla ricerca, alla dialettica, alla consequenzialità, all’approfondimento intimo, allo scavo del passato, più in generale alla cultura (un noiosissimo mostro che non porta profitto). Un male inteso “potere tecnologico” che rende sordi e perciò muti. Ma non basta nemmeno questo a giustificare un tracollo così vasto. Non tutti i grafici sono stati travolti dalle dinamiche perverse della modernità.
 
Ripenso a una frase emblematica, credo di Abramo Lincoln: “Se avessi tre ore per tagliare un albero ne passerei due ad affilare l’accetta”, che sottende un altro malinteso di fondo relativo al nostro mestiere. Esercitare concretamente la professione riguarda solo circa un terzo delle nostre vite. Ma un vero grafico è grafico sempre, ed è solo quando non sta esercitando, fuori quindi dal trambusto frenetico del “fare”, che ha la possibilità di affilare il pensiero (l’accetta). Non è il tizio che timbra il cartellino e che per otto ore “fa” il suo mestiere. Un grafico “è” grafico (così come l’artista “è” artista - non “fa” l’artista). Lo è ovviamente nelle canoniche otto ore lavorative; ma anche nelle altre otto ore di svago e ricreazione; e perfino dopo, quando sogna. Sempre. 

Siamo circondati di grafica, quasi tutta d’infimo rango. È perciò normale che la testa di un grafico sia sempre al lavoro. Deve lottare contro la bruttezza e la sciocchezza ma anche digerirle, assimilarle, perché s’impara moltissimo anche in modalità contraria, se supportati da un adeguato apparato critico. Un grafico deve ovviamente ricercare la bellezza e soffermarcisi, ma non solo: la deve conquistare a fatica, ché solo così si concede. E qui sorge un altro equivoco, a monte. A parole sembra scontato riuscire a soffermarsi sulla bellezza piuttosto che sulla sciocchezza. Ma è vero il contrario. La bellezza non è facile. Sembra facile perché siamo portati a raffigurarcela banalmente con un volto e corpo di donna in carne e ossa, o effigiata e assurta a mito. Ma la bellezza è ben altro che la collezione di simulacri del desiderio. Parlo della bellezza come manifestazione concreta del bene, come forza creativa ed espressiva, concetti chiave dell’estetica e dell’etica (qui coincidenti), valori universali riproducibili nel quotidiano a molti livelli, nel lavoro, nei rapporti personali, nel sociale. Ma, e qui sta l’inghippo, la ricezione della bellezza deve passare attraverso un confronto dialettico con la realtà che si ha davanti, che prevede quindi la “messa in gioco” e il conseguente rischio dell’incomprensione, addirittura il rischio di sentirsi un po’ stupidi. La bellezza, la vera bellezza, non confeziona risposte ma genera domande. E può lasciare interdetti a ripetersi a mezza voce: non ho capito fino in fondo, non ci sono ancora arrivato...

La sciocchezza - che è l’opposto della bellezza - è invece compresa senza alcuno sforzo da tutti, in prima visione. La sciocchezza fa sentire intelligenti, rassicura; viene salutata da una frase supponente ma esatta: già lo sapevo... Perciò la sciocchezza è dominante e tende a portare guadagno: è comoda, è riconoscibile, offre risposte “certe” e investe le masse. Fa sentire al calduccio e in buona compagnia. La bellezza concerne le domande, il dubbio, l’insicurezza, la precarietà, la profondità, il mistero. Riguarda pochi, isolati e sterili fessi.

E il grafico quindi (specie se “pubblicitario”)? Non deve forse assecondare il vasto pubblico? E perciò non è nel giusto nel cavalcare la sciocchezza, la confusione, nell’insistere sui luoghi comuni, nel ricopiare frasi fatte e modalità precostituite? Certo: non può ignorare il “comune sentire”; ma fa davvero il suo bene, e quello dell’intera categoria, limitandosi ad apporre acriticamente e senza un grano di sostanza il suo sigillo a questo vuoto?

C’è un altro modo di esercitare il mestiere, anzitutto nel porsi ogni giorno sulla graticola: cercando, e desiderando di trovare, ciò che ancora non si sa, senza paura di sembrare stupidi; ponendosi domande per il solo gusto di porsele, al di là del trovare o meno le risposte; divertendosi a proporre a sé stessi dei veri e propri esperimenti mentali, contro la semplificazione, la standardizzazione e il già saputo, coltivando una critica autonomia di giudizio e accettando serenamente di venir giudicati da chiunque, anche da gente che non comprende minimamente questi sforzi di autonomia e che, anzi, oltre a reputarli del tutto ininfluenti rispetto all’esito finale (il lavoro per cui si viene retribuiti) li fiuta insensati, sospetti o addirittura pericolosi. Anche qui però credo di aver delineato i contorni, sommari e parziali certo, non tanto di un gruppo di professionisti quanto di pochi, isolati e sterili fessi. 

Voglio chiudere in bellezza parlando d’altro, della visita, svolta proprio con Chiara il 12 gennaio scorso (un tipico gelido e livido giorno d’inverno in Bassa padana), alla mostra che Parma ha dedicato al suo eroe: Giambattista Bodoni. Il contraddittorio senso d’indefinibile e profondissima pace misto a desiderio erotico provato davanti ai capolavori bodoniani, quegli in-folio così musicali dalle ampie e delicate candide vele di carta a mano ricamate da calibrati e precisissimi caratteri neri... ha qualcosa d’incomparabile. Dopo più di due mesi continuo a sognare e a desiderare quelle pagine rilegate. Un sogno color dell’avorio, in perfetta armonia tra i pieni e i vuoti, che asseconda un ritmo naturale che però a noi umani è precluso. Il giardino dell’Eden della cultura, della sapienza, della bellezza, della speranza. Quelle pagine con quegli enormi e purissimi margini urlano in me “preesistenza”. E pace, serenità, semplicità, silenzio; ma anche slancio, forza, ardore, coraggio. Mai ho desiderato tanto “immergermi” in qualcosa. (Anche questa follia dovrebbe, forse, far parte del precario bagaglio del mestiere innominabile?).
 

26/03/2014 Filippo Maglione