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Grafica e comunicazione

Intensissima attività per lo studio, in questo scorcio di fine estate, inizio autunno. Presentiamo nel Portfolio una piccola parte dei lavori svolti: l'immagine del nuovo brand di abbigliamento sportivo Alé e il conseguente design di prodotto; la nuova immagine per il 2013 di Cipollini (The thin line); il secondo teaser video del libro Fluidità; la nuova immagine per il 2013 di DMT (Vega-Revolution).

Purché non sia solo la venticinquesima ora

“Lo studio del passato è anamnesi che consente una diagnosi del presente, che consente una prognosi del futuro”. È Tucidide che ci illumina, da diversi secoli. Ci parla del vivere come fosse una malattia. Ci prospetta però una cura, che presuppone una nozione del tempo che pare perduta. Ci propone addirittura uno ‘studio’ del passato, oggi impensabile. Il tempo individuale infatti viene vissuto come rimpianto o rimorso, al passato; come frenesia, al presente; come minaccia, al futuro. Non viene mai valutato, quindi, tantomeno studiato ma quasi sempre rimosso. Chi ama infatti vivere costantemente sotto scacco del rimorso, della frenesia o della minaccia? Questo nostro ‘qui e ora’ è perciò fatto per lo più di smemoratezza. Non so se quella che chiamiamo crisi sia anche una diretta conseguenza di questa smemoratezza. O meglio, credo di saperlo, credo di sì. Se guardo alle cause prime di questa banalissima ‘crisi da totalitarismo economico’ non posso infatti non pensare a un film già visto troppe volte ma mai assimilato come una lezione, a consolidare la convinzione che quel brav’uomo di Nietzsche l’avesse proprio azzeccata con la storia dell’eterno ritorno (a vuoto).

Credo che ogni epoca storica si sia sentita coinvolta in una ‘grande crisi’, sono quasi certo che anche nell’Atene di Pericle o nella Roma di Antonino Pio ampi strati della popolazione reclamassero, intimamente o meno, la loro porzione di crisi. C’è sempre stata una crisi qualsiasi da vantare, economica (ovviamente sempre la peggiore) o morale, religiosa o politica, oppure altre ancora o tutte insieme in una volta. Forse perché l’uomo è avido, invidioso e prepotente di natura, e perciò insoddisfatto? L’avidità, l’invidia e la prepotenza sono causa di ogni male, quindi anche di ogni grande crisi, senza dubbio. Ma non solo, perché una crisi vede attivamente coinvolti un po’ tutti, anche chi non è così avido, invidioso e prepotente. La crisi è infatti anche un alibi, uno scarico di responsabilità. Una sorta d’intralcio istituzionale, universale, sovrastante e incontrastabile; un limite alle singole ambizioni (“Senza la crisi chissà cos’avrei fatto, chissà cosa sarei diventato...”). Per sommo paradosso questo è anche un propulsore di sviluppo, non di vita vera, ma solo di sviluppo per come oggi lo s’intende su larga scala, ossia vincolato a unità di misura disumane quali il Pil. La crisi offre un alibi al singolo, alibi che però consente alle masse di andare avanti. L’idea di una crisi che cala dall’alto come un dio minaccioso e implacabile, di cui non siamo minimamente responsabili, è salutare; questa crisi, che intralcia irrimediabilmente le nostre potenzialità, fa sì che, dopo un primo periodo di sbandamento, non ci si disperi troppo dei nostri limiti e fallimenti, rendendoci produttivi invece che mortalmente depressi. Non si subisce lo stesso trauma se l’incendio è provocato da un fulmine piuttosto che dal gas dimenticato aperto.

Nel 1989, fondando questo studio, ero certo d’iniziare la mia attività nel periodo peggiore possibile. La sbornia degli anni ‘80 era ormai passata e si intravedevano le prime avvisaglie di recessione - anche se in aperta controtendenza l’Inter di Matthäus vinceva in carrozza lo scudetto dei record. Il nostro settore, dopo aver visto protagonista una minuscola, colta, selezionata e molto ben pagata élite intellettuale, stava diventando appannaggio della massa scarsamente alfabetizzata dei graficuzzi computerizzati, con tutte le nefaste conseguenze del caso, dalla perdita di credibilità e prestigio all’abbattimento dei prezzi. Attorno si agitavano un paio di svolte epocali gravide di conseguenze: crollava il muro di Berlino e gli studenti cinesi si opponevano al regime; due eventi in sé positivi ma che hanno cominciato a ridisegnare il mondo per come lo conosciamo oggi, mandando in frantumi equilibri politici e di mercato che parevano inattaccabili.

Da quel 1989 ho visto susseguirsi solo fasi di crisi, anche quando, guardando retrospettivamente, alcune di queste possono essere invece lette come vere età dell’oro, paragonate all’oggi. L’unica grande differenza rispetto alle altre vissute, è che questa crisi non lascia spazio nemmeno a una rivolta personale, originale, particolare; essendo ogni individuo soggiogato unicamente dal valore del denaro e dello scambio economico, ossessionato non meno che gli Stati dal solo tema finanziario, unico e globalizzato metro di tutte le cose, visibili e invisibili. Un individuo quindi deprivato anzitutto della sua fantasia, relegato ai margini della vita vera, nel suo onanistico cantuccio virtuale, simulato, digitale. Per inciso, una massa così soggiogata da un pensiero unico incombente e relegata a una continua auto-finzione di vita, è in realtá il sogno inconfessato di qualsiasi ‘potente’, d’ogni epoca e latitudine. Semplifica di molto il compito del tenere a bada le masse, poter manovrare un solo meccanismo. Non più ideali, credenze, passioni, fedi, ideologie, speranze, famiglie, territori, razze, nazioni, nemmeno pane. Solo: denaro, e per la quasi totalità perfino virtuale.

Per il singolo ne deriva anzitutto un crollo del desiderio e del sogno, che determina una blanda reattività nella vita reale, magari illusoriamente riscattata, come detto, da una possente vita virtuale sul web. Non si vive più, la vita al limite la si organizza, la si simula, per poterla fotografare per poi mostrarla in rete, a testimonianza che “noi sì che viviamo”. Ne derivano frustrazioni feroci alternate a continue ricapitolazioni su ciò che non si è riusciti e non si riuscirà mai a fare (non tanto a ‘essere’) per mancanza di mezzi. Questo non è né studio del passato, né diagnosi del presente. È solo malattia senza possibili prognosi, senza soluzione.

A sentire un po’ tutti la crisi attuale pare più profonda proprio perché terribilmente economica. E invece non è vero, questo è un pensiero ridicolo: mai crisi è stata più superficiale. Proprio per questa sua caratteristica totalmente economica, che colpisce il caposaldo stesso di questo sistema, sarebbe facilissimo e salutare passare oltre, da subito, slegando il nodo scorsoio che ci tiene avvinti tutti, chi più chi meno. Perché andare oltre a questo sistema fatto di Stati ostaggio delle burocrazie finanziarie e di politici che rappresentano solo i propri interessi non è mai stato così facile, da secoli a questa parte, perché questo sistema, come dice con sagacia il vecchio situazionista Raoul Vaneigem, “non ha bisogno di grandi rivolte dato che si sta abbattendo con le proprie mani”. Ed è giusto questo il momento, allora, per riflettere sul da farsi in chiave alternativa, costruttiva e ottimistica. Invece che lasciarsi andare e disperarsi (perché da un sistema in via d’implosione non si rischi di passare a un’altro, magari anche peggiore - ch’è vero l’adagio che al peggio non c’è mai fine).

Ma che tipo di azione alternativa, costruttiva e ottimistica è possibile, oggi? Non lo so, anzi, chiedo consiglio a chi legge, se mai qualcuno è riuscito davvero a leggere sin qui. Nel piccolo delle mie spropositate incertezze sto provando a far qualcosa partendo da una rilettura del concetto stesso di cultura (ben al di là del profitto che può eventualmente generare), della creatività, del sogno, del desiderio (desiderio di vita vera) e della gratuità. Del recupero, insomma, del ‘gusto’ della vita autenticamente vissuta, per riappropriarmi infine del gusto di progettare, di creare, d’inventare... liberamente, per il gusto di farlo e di dimostrare la mia intelligenza al mondo, o anche solo a chi mi vuole bene, al di là della vanità e del denaro, proprio perché convinto che ogni barlume d’intelligenza, di creatività e d’invenzione faccia bene, davvero bene a me e al mondo. Che quanto meno lo diversifichi per la frazione infinitesimale a me concessa.

L’augurio che faccio a tutti, ma a me per primo, in occasione dell’apertura del venticinquesimo anno di attività dello studio professionale (venticinque anni di crisi superate in bellezza) è quindi quello di provare a immaginare un mondo nuovo, che non sia però solo l’espressione più bella di una vita mancata (la venticinquesima ora del capolavoro di Spike Lee). Un mondo in cui inventare un altro destino andando oltre anche a questa ennesima crisi partendo dalle nostre vite quotidiane, con ottimismo, creatività, intelligenza, al contrario di come gli Stati (ostaggio delle burocrazie finanziarie) e i rappresentanti del popolo (che rappresentano solo i loro interessi) stanno cercando di fare, trattandoci come un branco di stupide pecore bisognose di molti, minacciosi cani da pastore (non solo tedeschi).

10/10/2013 Filippo Maglione

Post Scriptum

In questa particolare circostanza mi preme ricordare (visto che la memoria è decisiva!) tutti gli uomini e donne che in venticinque anni hanno contribuito in misura delle loro capacità al successo di questa impresa (restare ben saldi così a lungo francamente è un’impresa in molti sensi). Li ricordo tutti, e li abbraccio e li ringrazio, in particolare Silvio Salotto, con cui iniziai in quel meraviglioso sottoscala all’ombra dell’abside della Chiesa degli Eremitani. Eravamo giovani e forti e non siamo morti.