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Grafica e comunicazione

Morti Viventi

«La morte non è sorprendente». Facendo perno su questo apparente paradosso Thomas Bernhard ha scritto tra le più memorabili pagine di narrativa del ‘900. L’affermazione è del tutto sensata se si pensa che, data per scontata la nascita, la morte è l’unico evento di una certa rilevanza che ha accomunato ognuno dei componenti la progenie d’Adamo, perlomeno fino a oggi (più avanti vedremo: dicono che la tecnologia farà miracoli). 

Da sempre l’uomo ha cercato di dare un senso alla morte, fino ad approdare al pensiero cristiano, capace di convincerlo della sua potenziale immortalità. Così per molti della nostre stirpe morire è diventato un atto drammatico - sia nel senso della rappresentazione che della vicenda dolorosa - e non più tragico, perché accompagnato da un beneficio d’inventario: la verifica di validità della promessa in un aldilà considerato possibile, se non proprio certo. Poi sappiamo com’è andata: anche Dio è morto, sparendo dal nostro orizzonte e lasciando la morte isolata, irrimediabile, definitiva - oltre a ciò che realmente è, se privata della speranza di fede o degli artifici retorici: miserabile, assurda, sporca. Da qui crediamo derivi l’attuale problema nell’uso della parola, che induce a forme alternative a volte edulcorate solo nelle intenzioni: “scomparsa” (non esserci più) è termine assai più crudo di “morte” (cessare le funzioni vitali). 

I nostri cari morti sono tutt’altro che scomparsi. Al punto che, al contrario di Bernhard (1989), continuiamo a sorprenderci della loro morte. Ci sorprendiamo sempre, anche dopo molti anni, semplicemente perché non smettiamo di relazionarci con loro - e la relazione presuppone un atto di presenza, nella corrispondenza che intercorre tra due o più enti. 

Prendiamo a esempio una recente giornata scelta a caso. Dopo aver fatto toilette ascoltando l’Arte della fuga di Johann Sebastian Bach (1750) nell’interpretazione sublime di Hermann Scherchen (1966), abbiamo elaborato una campagna pubblicitaria servendoci di internet per ricavare suggestioni e citazioni utili a rendere un po’ meno banale il messaggio. Tutti gli autori presi in esame sono estinti (altro sinonimo brutale di morte), alcuni da tempo immemore, il più antico, Talete di Mileto, rimontando al 548 a.C. In tarda mattinata nella sontuosa sala d’attesa del nostro amministratore abbiamo ammirato i disegni di Raffaello Sanzio (1520) dell’Ashmolean Museum di Oxford riprodotti con acribia dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana - e in quei fogli pare proprio di vederlo, Raffaello, tracciare segni così nitidi da sembrare freschi di giornata. Più tardi, dopo pranzo, abbiamo visto su YouTube la divertentissima, oltre che istruttiva, conferenza di Philippe Daverio (2020) dedicata a Gaspare Campari (1882). Dopo aver gustato un caffè a regola d’arte, numinosa creazione di Gianni Frasi (2018), abbiamo scelto di rivedere un film di Alfred Hitchcock (1980) dal fascino rapinoso, con protagonisti un’angelica Joan Fontaine (2013) e un ingessatissimo Laurence Olivier (1989), imbattendoci in una pletora di anonimi morti: essendo stato girato nel 1940, e senza pargoli in scena, crediamo che tutti gli attori e le comparse possano dirsi matematicamente defunti (sinonimo assai meno crudo dei precedenti). Più tardi siamo saliti in Montagna (magica) proseguendo la lettura del terzo romanzo di Thomas Mann (1955) tradotto in maniera formidabile da Renata Colorni (per fortuna ancora in vita). 

Per buona parte della giornata abbiamo dialogato con i morti - e che qualità di morti, che qualità di dialoghi! Perciò il discorso iniziale si potrebbe rovesciare restando immutato: pur relazionandoci sempre con i nostri morti non smettiamo di sorprenderci della loro morte. E in quanto a definirli scomparsi: giammai! 

Tornando al caro Daverio, vera causa o pretesto di questa allegra Istantanea: non seguendo da tempo la cronaca ci è capitato d’inferirne la morte solo pochi giorni fa, un paio d’anni dopo l’effettiva dipartita (il sinonimo di morte forse più lieve), leggendo un breve saggio di critica d’arte che, accennandone di sfuggita, lo citava al passato - sospetto poi sancito con crudeltà da Wikipedia con tanto di malattia mortale. Nei due anni intercorsi tra il suo trapasso (sinonimo lieve almeno quanto il precedente) e la nostra presa di coscienza, abbiamo visto e rivisto molte delle sue strepitose conferenze e lezioni, ovviamente senza mai chiederci se fosse vivo o morto, e continuando a non chiedercelo dopo, assorbita la ferale notizia, perciò considerandolo implicitamente vivo. Certo, il mezzo tecnologico aiuta a far sembrare ancora vivo un morto, anche se ammettiamo di non percepire grosse differenze d’intensità di dialogo tra persone care lontane o vicine - per esempio tra un Tito Lucrezio Caro (50 o 55 a.C.) capace di aprirci la testa con la sua opera capitale, ma lontano in tutti i sensi (di lui non sappiamo praticamente nulla); e un Daverio che invece vediamo da anni sgorgare luminoso, quando più ci aggrada, col suo magnifico faccione bonario e gaudente che sembra sempre rivolgersi proprio a noi, in confidenza. 

Tutto questo per dire cosa? Forse quanto sia necessario rinnovare ogni giorno il tentativo di restare in equilibrio tra i vivi, con tutti i morti che ci portiamo dentro. O forse viceversa.

 

30/09/2022 Filippo Maglione