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Grafica e comunicazione

Spigolature


Distopia

Scorrendo una lunga lista di titoli di serie televisive presenti sulla principale piattaforma streaming, siamo rimasti colpiti dal numero di trame attualmente a catalogo ascrivibili al genere cosiddetto distopico. Essendo la serie televisiva un prodotto di consumo ad alto costo, che ha quindi la necessità di adeguare le proposte ai gusti di un vasto pubblico, tale abbondanza ci pare descrivere ancor meglio la domanda piuttosto che l’offerta. Come si può giustificare, oggi, la continua richiesta di distopia? Cosa può spingere un’enorme massa di persone a restare aggrappate alla dimensione del disastro anche nelle parentesi di vita dedicate alla ricreazione? Una masochistica forma di catarsi? Un maldestro tentativo di ammorbidire la propria realtà esistenziale con la comparazione al ribasso? Difficile rispondere. In ogni caso ai potenti non credo possa sfuggire il fatto che la distopia, nelle sue forme più o meno spettacolari e seriali, possa rappresentare, alla lunga, una forma di educazione capace di rendere desiderabili, o comunque accettabili, esperienze di vita altrimenti spaventose. Si tratta di un processo di scivolamento, di rimozione e di distrazione capace di plasmare al meglio individui già assuefatti alla dimensione del disastro e del pessimismo. Individui senz’altro incapaci di tradurre l’inquietudine in un’azione politica di dissenso.

Telefoni bianchi
Noi, al contrario, in questi mesi ci siamo dedicati allo studio del cinema italiano durante il periodo fascista, con particolare attenzione ai film dei Telefoni bianchi, per molto tempo considerati da una critica prevenuta semplici scarti cinematografici, aborti filmici, volgari opere di regime da condannare indiscriminatamente al rogo. Un viaggio di scoperta che si è invece rivelato godibile e sorprendente soprattutto per quanto concerne il trattamento di alcuni temi sacri, o comunque fondamentali, per entrambi i centri di potere dell’epoca, la Chiesa cattolica e il regime fascista: dalla famiglia (spesso sfasciata e comunque quasi sempre esposta a crisi profonde) al ruolo del padre (quasi sempre ininfluente), dal ruolo delle donne (quasi sempre dominante, oltre che eccentrico e anticonvenzionale) al rapporto con l’autorità (incredibilmente informale, finanche ironico, al limite del ridicolo). Di particolare interesse ci è sembrata la produzione cinematografica tra il 1938 e il 1943, ossia negli anni compresi tra l’inasprimento delle misure restrittive, con le leggi razziali, e la catastrofe bellica, con il crollo del regime. Il giovane Italo Calvino, nel descrivere i film dei Telefoni bianchi oggetto delle sue quotidiane frequentazioni delle sale cinematografiche sanremesi, li ha definiti i film dell’altrove, per la loro assoluta indeterminatezza geografica e temporale, per la totale assenza di qualsiasi riferimento al mondo esterno alla sala, tanto meno alla Chiesa, al regime e alla guerra, e infine per la capacità di trasferire gli spettatori in una dimensione parallela, sospesa a mezz’aria. Un processo di scivolamento, di rimozione e distrazione capace di plasmare individui assuefatti al sogno e all’ottimismo fittizio. Individui senz’altro incapaci di tradurre la loro dolce alienazione in un’azione politica di dissenso.

Moda
In questi decenni di presunta democrazia liberale abbiamo assurto a somma virtù il principio del consumo e interiorizzato il concetto di moda, tanto da renderlo immanente alla rete, perciò immanente a noi stessi. Stiamo inaugurando l’epoca in cui la moda sarà sempre in fieri, senza più stagioni, senza più durata, compiendosi ed esaurendosi nell’atto stesso del suo svelamento, ossia della sua comparsa sui dispositivi tecnologici di potenziali miliardi d’utenti in tutto il mondo - rendendo così tutto datato, irrimediabilmente datato, sin dal momento della sua apparizione. A questo si aggiunga, complice la cosiddetta pandemia, la recente dismissione dei templi della religione consumista, i luoghi fisici ma anche simbolici in cui la moda in un recente passato ha consacrato sé stessa al cospetto del mondo dei mercati. Senza più nessun appiglio concreto, e sin troppi aggrappi virtuali, come andremo a riconoscere ciò che è alla moda da ciò che non lo è più, o ciò che non lo è mai stato? Secondo noi il principale discrimine sarà l’obsolescenza. Se qualcosa si afferma e subito dilegua, passa, non dura, sarà stata di moda (ciò che persiste sarà, invece, irrimediabilmente e per sempre demodé). Saremo quindi destinati a un riconoscimento post mortem. Riconosceremo la moda solo una volta distesa sul freddo tavolo d’obitorio.

Tallone
Non conosciamo attesa più lieta di un bel libro. A giorni avremo finalmente tra le mani “I colloqui” di Guido Gozzano stampato “coi tipi di Alberto Tallone” nel 1970 (esemplare della tiratura di 470 copie su carta Miliani di Fabriano, composto a mano con carattere Tallone corpo 12). In passato abbiamo già argomentato a sufficienza attorno all’emozione, tutta fremente d’eccitazione e gratitudine, nel veder riuniti in un solo oggetto i versi di un ispirato autore e il manufatto di un illuminato stampatore. Perciò non ci dilungheremo oltre. Ma in questo caso, intendiamo in questo preciso libro, crediamo si possa riconoscere la maggior concordanza ideale e morale tra un poeta e il suo tipografo. Edoardo Sanguineti ci aiuta a definirla. «Gozzano anziché fabbricare il moderno destinato all’invecchiamento, cioè l’obsolescendo, fabbrica direttamente l’obsoleto, in perfetta coscienza e serietà. Ciò che è di moda è da lui contemplato e assunto come già demodé». Non è possibile descrivere meglio di così, per lo meno a parole, le “cose vestite di tempo” prodotte da Gozzano e ribadite sotto forma di manufatto da Tallone. Qualcosa di dichiaratamente obsoleto, ma semplice e perfetto, ossia di antico, moderno, contemporaneo e futuro, perciò senza durata, per assimilazione istantanea di tutte le durate possibili in un unico oggetto da tenere in mano, leggere, sorbire e odorare e meditare sempre, in tutti i momenti della vita. Qualcosa che non cambierà mai, pur cambiando a ogni presa di visione, a ogni lettura. Ci può essere qualcosa di più rassicurante di ciò che non è perfezionabile, e non sarà mai più perfezionata?

Resilienza
Partiamo dall’etimologia, perciò dal latino, che rimanda a «ritirarsi», «contrarsi», e al significato primario, che non fa riferimento a persone bensì a cose: «materiali che rimbalzano indietro, assorbendo violenti colpi». Negli ultimi anni ai significati originari si è sovrapposta una vera e propria narrazione fantastica. Nel pieno della Grande recessione, gli italiani sono stati all’improvviso bombardati, sui canali social e sui tradizionali mezzi di comunicazione, dal nuovo, seducente, vocabolo, via via dilatato di significato fino a coinvolgere ambiti pretestuosi ai limiti del ridicolo. Più che un vocabolo, un delirio collettivo, tanto da diventare un hashtag di tendenza negli ambiti più disparati: economia, psicologia, edilizia, calcio, ristorazione, sollevamento pesi, eccetera. Un vocabolo attorno al quale da anni si organizzano corsi di formazione, webinar, workshop, tesi di laurea, si producono magliette, gadget, s’inchiostrano eleganti tatuaggi. Ma nel significato profondo delle parole troviamo sempre segni rivelatori. Se è vero che il resiliente accetta la crisi adeguandosi senza immaginare scenari alternativi alla stessa, e se è vero che anziché dialogare - o meglio, protestare - preferisce subire in silenzio ogni avversità, allora è chiaro che più che a un essere senziente ci riferiamo a «materia malleabile che rimbalza indietro, assorbendo violenti colpi». Dal punto di vista del dominante stiamo parlando del suddito ideale, del più perfetto esemplare di dominato. Un sostantivo umiliante ne esplicitava, in passato, la mansione con buona approssimazione: servo, dal latino servus «schiavo», anche come aggettivo «assoggettato, sottomesso»; ribadito successivamente da un appellativo identico nel suo significato avvilente: schiavo, dal latino medievale sclavus, slavus, propriamente «prigioniero di guerra slavo». Il termine resiliente, invece, pur esprimendo nel significato la stessa frustrazione dei precedenti due (forse anche con maggiore crudezza), si è imposto da subito con l’autorevolezza di un prestigioso brand del lusso, reso, col passare degli anni, sempre più charmant da una schiera di volenterosi e non sempre spassionati opinion leader. Fino a giungere all’oggi, al punto che il nostro benemerito e infallibile e già leggendario Presidente del Consiglio ha pensato bene di porlo in capo alla sua ultima titanica impresa: il Piano Nazionale di Ripresa e, appunto, Resilienza - il cui acronimo prende un vago tono, pur congruo, di pernacchia.

Mainstream
Non siamo resilienti e ci pregiamo di non seguire l’attualità del mainstream. Crediamo che le due negazioni siano correlate ma potremmo sbagliarci, trattandosi forse solo d’indole riottosa congenita. Una volta al mese scorriamo l’home page del sito internet del Corriere della Sera per fornirci d’una sommaria panoramica dell’aria che tira, e ogni volta, di fronte a tale inane spettacolo, non possiamo che restare attoniti. Ma è reazione ottusa, la nostra, dovuta solo all’incostanza. C’è un’enorme differenza tra guardarsi il volto allo specchio ogni giorno, e guardarselo una volta ogni decennio - come assistere al movimento impercettibile di un ghiacciaio, e a una valanga. Chi segue la cronaca ogni giorno (pressoché tutti in epoca pandemica, dato che nessuno può rinunciare al bollettino di morte e alla prolusione del virologo di turno) fa fatica a recepire il crollo, ogni giorno ricevendo segnali inapprezzabili senza mai poterne immaginare una somma, così come guardandosi ogni giorno allo specchio non può notare la ruga incipiente. Ma chi non è assuefatto al metodo del mainstream, alla sua urlata cacofonia, frequentandolo una volta al mese non può non restare sgomento per gli schianti agghiaccianti delle parti franose, che spiccano nel silenzio come i morsi della fame nel digiuno.

Gestione
“La potenza è nulla senza controllo”, recitava una celebre campagna pubblicitaria di una multinazionale della gomma. Uno slogan perfetto che in passato abbiamo riletto ironicamente in chiave storica riferendolo ai regimi totalitari del ‘900 e ai loro efficienti apparati di polizia politica adibiti al controllo capillare dei propri sudditi. Pensando alle imprese della Stasi nella DDR e del KGB in Unione Sovietica, ma anche dell’OVRA, la polizia politica attiva in Italia nel famigerato ventennio, non ci sembrava suonasse male “il potere è nulla senza controllo”. Ebbene, in questo senso oggi è come se si fosse passati di grado. Il controllo dei sudditi con metodi sporchi tramite loschi figuri, tipico di ogni serio regime del passato, è stato soppiantato dalla gestione pulita del singolo suddito tramite apparentemente neutri dispositivi tecnologici. Oggi “il potere è nulla senza gestione”.

E la vita reale?
Le idee, conformate al politicamente corretto, vengono imposte e quindi gestite dall’alto tramite aggeggi che abbiamo sempre in mano, o comunque davanti agli occhi, a farci compagnia e a consolarci a tutte le ore del giorno e della notte. Come si può non credere a quegli aggeggi, nostri fedeli compagni? Così, oltre che ad abbandonarsi acriticamente al mainstream, ci si limita a interloquire con gruppetti virtuali ben selezionati composti da utenti - non persone - consonanti (è molto più comodo e gratificante assicurarsi conferme piuttosto che rischiare smentite). Sul web, al contrario che nella vita reale, si può selezionare l’interlocutore in maniera accurata, capillare, sia che lo si voglia virtualmente amare, sia che lo si voglia virtualmente odiare - amare e odiare a distanza e in maniera pulita, evitando nel primo caso rischi, responsabilità e rotture di palle, nel secondo caso magari evitando un pugno in faccia. E se fosse proprio questo il cardine di tutta la vicenda? A non essere più sopportabile non è proprio la vita cosiddetta reale, per altro così noiosamente esposta a contagio? Una vita reale scomoda e precaria, deludente surrogato della vita virtuale.

 

07/05/2021 Filippo Maglione